Stranamente, nel vedere questo film, viene in mente About Schmidt, una pellicola di qualche anno fa interpretata da Jack Nicholson, che per la prima volta si mostrava quale è, ovvero un signore anziano e non più tanto prestante, senza le sue solite smorfie da dissociato che gli sono rimaste appiccicate dopo la scena con l’ascia di Shining, e che incarnava un personaggio meschino, patetico e brutto. La critica americana gridò al capolavoro: perché? Probabilmente perché per la prima volta (o quasi, tralasciamo i grandi autori e gli indipendenti furbi alla Little Miss Sunshine) al centro di un film statunitense c’era un personaggio negativo, che non migliora, che rimane sgradevole dall’inizio alla fine, che non salva il mondo, che non prende coscienza di sé, che non ha il solito lampo di auto-coscienza finale che lo redime agli occhi dello spettatore. La quintessenza dell’autorialità europea, avranno pensato i critici americani. Che coraggio. Che originalità.
Zodiac, osannato dalla stampa in patria, condivide in fondo lo stesso presupposto: il distacco dalle regole del mercato equivale automaticamente al cinema d’autore. Il film di Fincher, infatti, sembra collocarsi nel solco del genere ormai sufficientemente sfruttato del serial killer che sfida la polizia a chi è più furbo, ma (ah, colpo di genio!) se ne allontana di colpo perché manca il tassello fondamentale, ovvero la certezza dell’identità dell’assassino, l’inseguimento al cardiopalma, la giusta punizione. E questo perché Zodiac è una storia vera, mai realmente risolta, in cui un cumulo di indizi non ha mai costituito una prova decisiva, anche se vi sono state precedenti versioni dal finale classico come Ispettore Callaghan, il caso Scorpio è tuo (che non a caso viene esplicitamente citato nel film). Il serial killer può essere stato proprio colui su cui gravano i maggiori sospetti, ma è riuscito a beffare tutti fino all’ultimo, oltre trent’anni dopo il suo primo delitto. Il vero soggetto del film, di conseguenza, dovrebbe essere l’ossessione di tre personaggi (un vignettista, un giornalista, un poliziotto) di scoprire la verità, a costo di sacrificare la propria vita autodistruggendosi (uno di loro ce la fa con un certo stile, il solitamente bravissimo Robert Downey jr qui pericolosamente in bilico su un istrionismo di maniera) e mettendo in pericolo l’esistenza delle persone care. Peccato però che nell’ossessione (questa sì) di fornire allo spettatore tutti, ma proprio tutti gli indizi di tre diversi dipartimenti, tutti i meandri di indagini durate tre decenni, il susseguirsi di nuovi nomi, nuovi sospetti e infinite perizie calligrafiche, anche l’evoluzione psicologica dei protagonisti ne risulti sacrificata. E dunque eccoci davanti alle solite mogli che rimproverano ai mariti di mandare all’aria il matrimonio e se ne vanno portandosi via i figli, a problemi di alcoolismo, a retrocessioni di carriera di poliziotti troppo zelanti, senza che realmente si riesca a creare una corrente di empatia con la frenesia dei cacciatori di mostri. Anche la rappresentazione dei rischi della psicosi di massa scatenata dagli eventi rimane in secondo piano, mentre poteva costituire un valido elemento di denuncia come accade, ad esempio, in Summer of Sam di Spike Lee.
Risulta invece molto più convincente la prima parte, in cui viene messa in scena la dinamica assurda e inspiegabile dei delitti, tanto più inquietanti nella loro cornice della idilliaca provincia americana e così diversi l’uno dall’altro per modus operandi. Paradossalmente è proprio il desiderio di rimanere quanto più fedele alla verità ad appesantire dunque le oltre due ore e mezzo di Zodiac, a dimostrazione che seguire le regole di genere non è sempre un crimine.