L’immagine di una giovane ragazzina che ripete su uno schermo i movimenti della coreografia di una pop star virtuale dovrebbe suggerire un’idea di dinamismo e di vitalità che contraddice il clima (e)statico  e decadente di una spa per  artisti in carenza d’ispirazione e in regressione sparata dentro i loro mondi in cui la vita e la sua rappresentazione si sono confuse in maniera ipnotica e astratta. Ecco, proprio quell’immagine invece in Youth-la giovinezza, con cui Paolo Sorrentino mette in scena la funerea celebrazione del suo stile barocco, ridondante e compiaciuto in una forma più intima e meno epica de La Grande bellezza, offre il più desolante brivido di morte, soprattutto quando ci accorgiamo che la ragazza sta eseguendo dei gesti che non provengono e non appartengono a nessun corpo reale, ma sono una simulazione, un ritmo e un tempo indotti, costruiti, artefatti e non il naturale, incontenibile moto di un corpo che segue il proprio istinto e le proprie pulsioni. Il vezzo, tanto ossessivamente caro a Sorrentino, del rallenti nel filmare i corpi in movimento sottolinea e calca il contro-senso di un’immagine che appare davanti agli occhi del laconico e apatico protagonista, Fred Ballinger, un tempo celebrato direttore d’orchestra e compositore, come una possibilità di rigenerazione nell’innocenza o una promessa di desiderio nel contatto, visto che la ragazza in questione fa anche la massaggiatrice.

Forse il film di Sorrentino è riassumibile nella dialettica tra un’autentica, disperata ricerca di tensione vitale attraverso lo sguardo e la stanca, alienante e sfacciatamente consolatoria accettazione che la vita può rinnovarsi  solo nel valore assoluto della rappresentazione, e di conseguenza la giovinezza non diventa più una condizione esistenziale e non è neanche condizionata o limitata dalle categorie del tempo e della memoria, ma è come se fosse la proiezione di un palcoscenico dal quale si è chiamati o a ritirarsi o ad entrare in scena per rigenerare, riprodurre l’immagine di un bianco candore con un’oscura suggestione retrospettiva di  sangue e morte. Si potrebbe pensare all’asettica e luccicante location dell’albergo/resort ai piedi delle Alpi, dove Ballinger e il suo doppio/migliore amico regista Mick Boyle si confrontano sul loro giro di vite ma anche  sulle  occasioni di rentrée (per Ballinger un concerto davanti alla regina al quale pone la feroce resistenza del suo esilio, per Boyle il romantico attaccamento all’idea di un nuovo film, dall’utopica realizzazione  come appare dall’improbabile team di giovani sceneggiatori di cui si è circondato), come al dietro le quinte, all’attesa prima di un nuovo esordio, il limbo dove i due compari possono denudarsi delle maschere deformanti e magniloquenti che mette loro addosso lo sguardo di un pubblico pieno di bramose aspettative, con l’affermazione di un culto, in primis quello de La giovinezza, che è parimenti aspirazione e condanna.

Se i presupposti sono questi, non c’è dubbio che Youth possieda un  fascino perverso e un’anima scissa, schizofrenica, un’ambiguità tra immagine e parola, tra sentimento e cinismo, tra lucidità e delirio, un compendio di tutto ciò che di Sorrentino abbiamo imparato ad odiare e ad amare, la strafottenza che confina con la vulnerabilità, il rigore del sublime sul precipizio dell’eccesso, del cattivo gusto.

E in quanto compendio Youth può  apparire esasperante e fastidioso, a partire dalla coppia di personaggi principali, con quei loro discorsi altalenanti tra la quantità di urina giornaliera prodotta  e ricordi condivisi di un qualche amore non corrisposto o non consumato, nel tentativo di chiarire alcuni nodi del proprio passato con il permesso di essere sinceri, un clichè dell’amicizia senile giustificato dall’alibi dell’età dove tutto ormai può confessarsi. Inevitabile, però, un pensiero: a chi interessa di questi due vecchi e dei loro problemi di vescica, piuttosto che dei loro mancati rendez-vous amorosi o delle scommesse che per noia e indolenza fanno sugli altri ospiti dell’albergo, tra i quali  una coppia di anziani attraversati dal demone dell’incomunicabilità e di cui non ci viene risparmiato un focoso amplesso in mezzo al bosco?

Stessa cosa per la variegata umanità che gira intorno ai loro sterili microcosmi relazionali, come la figliaassistente di Ballinger che, in un escamotage narrativo degno di un grottesco melò o di una telenovela, viene mollata dal figlio di Boyle per una improbabile e sgraziata pop star e approfitta di una seduta di fanghi per rinfacciare al padre il leit motiv del genitore egoista e anafettivo, capace solo di ascoltare la propria musica e imporre il proprio silenzio  a lei e alla moglie, assenza/presenza quasi spettrale nel continuo rimandare a com’era e a com’è diventata.

E gli sceneggiatori che collaborano con Doyle, tutti suddivisi come caratteri di un’ammuffita commedia umana fin dall’indicazione dei nomi nel pressbook del film  (il timido, il buffo, l’intellettuale, la coppia di innamorati) creano altrettanti momenti grotteschi o imbarazzanti nella ricerca a vuoto del finale del film che Doyle vuole realizzare, ma di cui non si racconta mai la trama.

Anche l’attore “californiano” disilluso dall’effimera popolarità di un ruolo di robot in un blockbuster  e alla ricerca di un riconoscimento in quanto interprete e non solo icona per di più metallica, sa di storia già vista, raccontata e non suscita nessun particolare interesse per la sua evoluzione. Situazioni che si incontrano, anzi, si sfiorano  senza mai toccarsi veramente o lasciare un segno più profondo di un’ immagine (per liberarsi dal personaggio del robot, l’attore deve vestirsi di un’immagine ancora più  forte e iconografica, Adolf Hitler) e che Sorrentino mette in immagini del suo cinema, come se fosse l’unico possibile: certo, le ragazzine che ballano al rallenti della musica elettronica, i contrasti di luce  ed ombra su corpi imperfetti e statici, la tenerezza e il  per contraddizione ( la mamma che accompagna la figlia escort, le carni rugose degli ospiti nel rosso infuocato della sauna), i cori di musica sacra come contrappunto e contenitore “alto” del bailamme di volti e suoni  e, più di tutti, il vezzo dei vezzi:  l’abuso di carrelli a voler precisare che, prima dei personaggi, lo sguardo è quello del regista che va a prendersi, a costruirsi le immagini,piegando, deformando, rallentando o accelerando quello che osserva nel piacere narcisistico di essere visto attraverso ciò che vede .

L’invito o l’aspirazione che Fred e Doyle si fanno reciprocamente nel cercare la leggerezza e non prendersi troppo sul serio, Sorrentino, autore in solitaria della sceneggiatura, la fa enunciare ai personaggi, ma la proliferazione di visione e di sensi che innesta su figure patetiche e già defunte,la carne stantia e in putrefazione che, letteralmente, mette al fuoco della sua  ambizione è tale e tanta da tornare al punto di partenza: a chi può interessare tutto questo se non a Sorrentino e al rafforzamento del suo ego?

La vera, grande bellezza consiste nell’assistere al  processo di ripiegamento, di collasso (consapevole, perché troppo costruito e troppo cinico per non essere realmente dolente)  dell’estetica del franchising Sorrentino che per, parlare della Morte, deve arrivare ad un punto morto, a raschiare il fondo, raccogliere le ceneri, involvere fino alla regressione. Ci sono lo smarrimento e la paura di Mick, il regista, con la materializzazione davanti a suoi occhi di tutto l’immaginario femminile del cinema che ha realizzato. Una sequenza che sembra una voluta, ridicola, brutta copia della scena tra Mastroianni e il suo harem femminile in 8 ½ (solo che Mick ne rimane schiacciato e confermato nella sua impotenza e perduta incapacità di controllo del proprio immaginario). E ci sono poi l’assolutezza e l’idealizzazione  di Fred che solo all’interno di una scenografia da candida bomboniera, con l’orchestra cosi devota, la soprano così meravigliosa e scintillante e un pubblico così disposto alla commozione di fronte a un “classico” del suo repertorio tornerà a dirigere, non prima di aver imposto, con un confessione non richiesta, l’ultima forma di evitamento e rifiuto alla moglie, ridotta si a fantasma , ma di carne e ossa, con  una sorte peggiore della morte che pensavamo le fosse già toccata.

Se non bastasse questa duplice scelta, accecante nel vicolo cieco dentro il quale si spinge Mick quanto nella luccicante consolazione  che Fred sceglie per farsi abbracciare, c’è la dicotomia più potente e sintetica del film a rivelarcene la sua natura dilaniata, misera nell’ammiccamento e feroce nella disperazione. Il corpo statuario, imponente, dalla carnalità patinata e imposta prepotentemente a crepuscolo dell’immaginario erotico, di Miss Universo, con addosso lo sguardo  ammaliato dei due vegliardi marpioni in piscina, che è diventata anche la  contestata immagine di un manifesto da vedere a posteriori per capire quanto rappresenti in realtà il valore illusorio del residuo del desiderio, il canto di una sirena plastificata cha alimenta aspirazioni di vita, ma poi le soffoca nella disillusione della morte.

Tutti gli inganni e tutte le disillusioni scorrono invece sopra il mascherone truccato e liftato e tra la piaghe della voce roca e stregonesca di Jane Fonda, nel ruolo di Brenda Morel, l’attrice/musa/ispirazione  di Mick, che crede ancora di poter costruire un film con e per lei, prima di venire smascherato, nella sua ultima occasione per la vita e per  il cinema, dalla “schiettezza e dalla franchezza che spesso non si usa nel nostro ambiente”, le dice Jane/Brenda. Eppure, quel momento truce sull’aereo in cui le parole dette con crudeltà al suo mentore/pigmalione del tempo perduto le se ritorceranno contro con la violenza del senso del colpa e di un rimpianto destinato a durare,  rimane impresso  come un grido che spazza via tutte le bugie, le consolazioni, i vezzi e gli ammiccamenti e ci lascia prendere da un sentimento di inquietudine reale, preciso, incontestabile: siamo tutti intrappolati in una rappresentazione che non riesce ad uscire da se stessa.

E il limite o la virtù del cinema di Sorrentino torna a insistere: uno sguardo sulla patetica, grottesca messa in scena degli esseri umani fino all’esasperazione e  al l’urlo di rabbia che ne consegue. Nessuna catarsi, però: solo la continua, vacua ricerca di un nuovo inganno, di un’altra sirena.

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