da Cannes – Diretta con grande successo in questi ultimi anni da Olivier Père La Quinzaine des réalisateurs è senza dubbio la sezione parallela più importante del Festival. Fondata nel 1968 come un forum alternativo all’establishment della selezione ufficiale, La Quinzaine, pur subendo nel corso degli anni delle inevitabili trasformazioni, ha saputo conservare uno spirito innovativo, audace ed eclettico delineandosi come un luogo privilegiato per la scoperta dei talenti di domani.
In questa sua 41esima edizione, l’ultima per Olivier Père chiamato a dirigere Locarno, La Quinzaine ci propone una selezione appassionante di ventiquattro lungometraggi provenienti un po’ da tutte le parti del mondo fra cui undici opere prime che concorrono per la Caméra d’Or. Inaugurata il 14 maggio con la proiezione di Tetro, l’ultimo film di Francis Ford Coppola, l’avventura della Quinzaine è iniziata per me solo un paio di giorni più tardi, il 17, con due film nati entrambi dalla collaborazione di un artista francese con un regista straniero. Yuki e Nina deve la sua realizzazione al lavoro comune del maestro giapponese Nobukiro Suwa con l’attore francese Hippolyte Girardot, alle prese qui con il suo primo lavoro di regia; Ne change rien é frutto dell’amicizia e della complicità fra il regista portoghese Pedro Costa e l’attrice-cantante francese Jeanne Balibar.
I due progetti, in sè totalmente distinti, portano ben visibili le tracce di queste simbiosi artistiche. Yuki e Nina è la storia di una bella amicizia infantile. Pur accusando un leggero disequilibrio di stile fra una prima parte di matrice realista e un’ultima parte, pervasa da un incantevole onirismo, Yuki e Nina è un’opera degna di nota, poetica e piena di grazia. La prima parte del film si svolge in Francia, la seconda traccia il “passaggio” – rito iniziatico ed esperienza del meraviglioso al contempo – della piccola Yuki dalla Francia al Giappone. Yuki, una bambina di sei anni figlia di un francese e di una giapponese, si trova improvvisamente a dovere affrontare il divorzio dei suoi. Come se questo non bastasse la giovane mamma decide di ritornare a vivere in Giappone portandola con sè. Per Yuki che vive felice a Parigi e passa le sue ore libere giocando con Nina, l’amica del cuore, questa notizia è un vero fulmine a ciel sereno. Il personaggio di Yuki, bimba schiva e ritrosa, ma determinata e cocciuta allo stesso tempo, costituisce, senza dubbio, una delle maggiori riuscite del film. Quali sono i mezzi di cui dispone una bambina per opporsi ad una decisione crudele, dolorosa e forse ingiusta che la riguarda ed è presa da altri per suo conto?
Yuki e Nina preparano in un primo tempo una lettera indirizzata ai genitori di Yuki dalla “fata dell’amore”. La lettura della lettera fa scoppiare la mamma in un pianto accorato, ma non riesce a cambiare il corso delle cose. Nina e Yuki fanno così ricorso ad uno stratagemma estremo: fuggiranno insieme nella casa di campagna di Nina. Questa è forse la parte più macchinosa del film, una certa lentezza si instaura, i giochi delle bimbe, i loro discorsi sembrano reiterarsi all’infinito senza imprimere un vero sviluppo alla trama finché, durante una passeggiata nel bosco, Yuki decide all’improvviso di separasi dalla sua amica. A questo punto il film cambia completamente di registro; ci troviamo improvvisamente di fronte ad un piano di una bellezza singolare, quasi ieratica, totalmente distinto, sia per quanto riguarda lo stile che per quanto riguarda la dimensione dell’inquadratura dal resto della pellicola.
In un campo molto lungo vediamo Yuki, una piccola macchia bianca, stagliarsi con uno splendore soprannaturale sul fondo degli alberi al limite della foresta.
La bimba ha varcato la soglia di un altro mondo, un mondo famigliare e magico al contempo; come in un incantesimo, senza soluzione di continuità Yuki si ritrova in Giappone. Due bimbe passano in bicicletta, la chiamano per nome e la invitano ad andare con loro. Vediamo Yuki giocare serena e perfettamente a suo agio con un gruppo di bimbe in una casa di campagna tenuta da donna anziana affettuosa e piena di premure. Quando il gioco finisce le bimbe ripartono ognuna per conto suo e noi, di colpo, rivediamo Yuki nella foresta rifugiarsi fra le braccia del padre, morto nel frattempo di inquietudine.
Un’altra ellissi ci trasporta nuovamente in Giappone, ma ormai siamo rientrati nella sfera del reale: Yuki e sua mamma passeggiano in campagna, la bimba riconosce, come in un sogno, i luoghi del suo viaggio meraviglioso. Il film si chiude con le immagini di Yuki davanti al computer, le sta vicino una bimba giapponese, la sua nuova amica del cuore; sullo schermo appare l’immagine del padre e di Nina: i due gruppi lontani si parlano, scherzano e fanno dei progetti comuni per le prossime vacanze. Yuki e Nina ci propone una riflessione sensibile e poetica sul tema della diversità. Francia e Giappone, due universi talmente distinti da sembrare incommensurabili, trovano il loro punto di contatto nell’anima di Yuki. L’esperienza traumatica del distacco dalla terra natale, dell’abbandono di tutto un mondo affettivo è trasformata dalla fantasia artistica dei due registi in un passaggio magico e meraviglioso; per Yuki la mediazione è possibile e con essa la felicità.
Yuki e Nina trasforma le vicissitudini di una bimba presa fra due culture in un vero messaggio di speranza e di tolleranza per noi tutti.
Ne change rien, più che da una semplice collaborazione, nasce da una sorta di osmosi artistica fra uno dei registi più rigorosi e radicali del nostro tempo, Pedro Costa con la sua “musa”, l’attrice e cantante francese Jeanne Balibar. In teoria il film potrebbe essere definito come un documentario: si tratta, infatti, delle riprese di una serie di concerti di Jeanne Balibar con il gruppo rock di Rodolphe Burger in Francia ed in Giappone, di sessioni di prova e di registrazione, di momenti di attesa in un camerino, di scene tratte dall’opera Périchole di Offenbach e di una lezione di canto lirico, ma il trattamento estetico che Pedro Costa impone a questa materia, ben reale e concreta, ne fa tutt’altra cosa. Filmato rigorosamente in bianco e nero Ne change rien è un film ipnotico.
La maggior parte delle scene si svolge in un’oscurità quasi totale: una candela, due lampade da scrivania posate qua e là fra i musicisti fungono da sorgenti luminose. Anche le sequenze dei concerti, illuminate in realtà da una serie di riflettori, sono fortemente sottoesposte; di fatto nel film c’è un’unica scena con una finestra da cui penetra la luce del giorno.
Pur trascrivendo tutto il travaglio della creazione artistica il film è pervaso da un senso di immaterialità; la granulosità dell’immagine e la luce che si delinea come una carezza furtiva sui corpi creano un’atmosfera estremamente suggestiva. Anche il montaggio, associando senza soluzione di continuità luoghi e situazioni diverse, contribuisce a farci perdere ogni punto di riferimento. In uno spazio privato dei suoi contorni l’immagine della cantante spicca come una sorta di teofania, il suo volto si staglia nei meravigliosi chiaroscuri della fotografia etereo e profondamente umano al contempo.
Pedro Costa osserva la cantante da vicino, ne spia le mosse, i movimenti delle mani, le espressioni più fugaci in una maniera che ricorda, per molti versi, l&rsqu
o;esperienza straordinaria di uno dei suoi primi film No quarto da Wanda (2000), in cui aveva filmato per mesi la vita di Wanda, una giovane marginale, nel quartiere ormai distrutto di Fontaihnas a Lisbona. Le inquadrature traspirano lo stesso affetto per la donna filmata, la stesso approccio viscerale, ma leggermente distaccato. La messa in scena, focalizzando il nostro sguardo sui rari bagliori di luce, ci trascina con una forza irresistibile nell’universo della musica: la voce calda, leggermente roca di Jeanne Balibar e le melodie del film risuonano a lungo, anche dopo la proiezione, nella nostra mente.
Pedro Costa ha da sempre dimostrato di sapere trasformare la materia documentaria del quotidiano in un’opera fuori dal tempo. Ne change rien ne è una prova ulteriore.