Davvero uno strano festival, questo Roma 2010. Nato già in preda a serie crisi d’identità ai tempi di Veltroni-Bettini, vacillante fin dal suo status onomastico (Festa, festival o fest? Del Cinema o del Film?), non si è mai dato la pena di lottare negli anni per affermare un’impronta caratteriale riconoscibile. Un po’ sagra del cine-pecoreccio, un po’ parco a tema “vorrei-Hollywood-ma-non-posso” e un po’ spazio baby-sitter, sorta di Smaland in taglia XL – la mitica Neverland in Pvc dei bimbi Ikea – ci riferiamo alle proiezioni per i più giovani di Alice nella città, che a scanso di equivoci si conferma tra le sezioni più innovatrici e coraggiose. Di anno in anno si procede a tentoni, perennemente in bilico tra concessioni al pop-trash e vocazione cinefila, con l’encomiabile sezione Extra-L’Altro cinema diretta da Mario Sesti (immaginiamo con quante e quali difficoltà) a tenere la barra dritta sulla sperimentazione e la contaminazione di genere e formati.
Edizione 2010, orgogliosi dei nostri pregiudizi, ci apprestavamo a vivere una nuova indigestione di cinema eterogeneo, galleggiando a vista alla paziente ricerca di sorprese nelle sale meno affollate, senza che alcun altro nesso si riuscisse mai a stabilire tra i film proposti, di là dalla quasi matematica certezza di un programma composto di refusés e scarti di festival considerati a torto o a ragione più importanti.
Con il passare degli anni poi, la malconcia destra al governo – quella del cinguettesco verseggiare cortigiano di Bondi, ancor prima che quella tremontiana dei tagli al FUS e alla cultura, seguendo la legge non scritta dei tempi bui, “pancia piena e testa vuota” – aveva avuto modo di completare lo spoil-system di rito, con effetto immediato, ci si sarebbe aspettato, sulla ridefinizione ideologica e sulle scelte artistiche del baraccone romano.
Per dirla proprio tutta non aiutava neanche la brutta sensazione di nausea – di cui il povero festival è incolpevole, trattandosi del regolare ripresentarsi di un’ulcera mai curata a dovere – che attanagliava chi vi scrive nei giorni d’apertura.
Ebbene, passate le crisi di voltastomaco, alcuni incredibili passi falsi organizzativi e incidenti diplomatici (l’anteprima stampa di Social Network doppiato in italiano senza sottotitoli, l’annullamento improvviso della proiezione di Carlos di Assayas col pubblico già in fila) ci troviamo costretti a correggere il tiro, sia in riferimento alla mancanza di compattezza che alla temuta regia politica totalitaria, da non prendere mai troppo sul serio, essendo il cinema uno strumento di conoscenza adogmatica, per definizione insofferente a ogni potere costituito. Non stiamo asserendo che il festival di quest’anno ci abbia stupito per la qualità straordinaria delle opere selezionate, tutt’altro. Ma almeno ci sembra di riconoscere alcune linee tematiche abbozzate e nel complesso una proposta curatoriale più delineata che in passato.
E, udite udite, alla festa del cinema a guida Pdl (quelli della giornata della famiglia, ve li ricordate?) diretta da un critico, Rondi, rappresentante della ex destra democristiana più bigotta, si parla niente di meno che di… sesso. Per forza, direte voi, la marcescente generazione bunga bunga si è cucita addosso un festival a propria immagine, appositamente per celebrare i suoi decadenti baccanali fine Impero e il trionfo della nuova ideologia al potere, riassumibile nello slogan: “vogliamo i SUV, ma anche la gnocca”.
Ve lo concediamo, probabilmente c’è anche questo. D’altronde cos’altro ci si sarebbe potuto aspettare, negli stessi giorni in cui la piccola Ruby diventa finalmente padrona del suo destino con la maggiore età, con un Governo che ha il Viagra come sponsor ufficiale, la festa del cinema fa risaltare finalmente nella giusta luce il ruolo sociale di maîtresse e concubine e il libertinaggio senile diventa categoria etica dello spirito.
Poiché tuttavia il sesso è una cosa dannatamente seria, pensiamo che l’arma della propaganda alla puttanesca si sia ritorta contro lor signori. Molto opportunamente, in questo festival non ci sono solo corna, trasgressioni borghesi e d’annunziani elogi del boudoir; si parla invece di sesso declinandolo felicemente al plurale, si parla di coppie di fatto, d’identità di genere liquide e transitive (The Kids are Alright); una splendente e disgustata Julian Moore ha dedicato poche fulminanti battute alle recenti uscite del Premier sui gay, inchiodandolo al ruolo di penoso residuo anacronistico, rappresentante di un italietta da bar sport che continua a perdere occasioni di intercettare il cammino del progresso.
Si parla di pornografia come strumento di emancipazione, slegata dalle leggi del mercato, e del controllo della sessualità come punto nevralgico intorno al quale i sistemi sociali sanciscono l’oppressione degli individui (vedi il giapponese Yoyochu in the Land of Rising Sex, il coreano Shimjangii-Thyney, e gli statunitensi The Canal Street Madam e Mother of Rock.)
Si parla molto, soprattutto, dell’altra metà del cielo, delle donne protagoniste di processi rivoluzionari, finalmente al timone della propria esistenza e artefici della Storia, senza necessariamente dover esporre mercanzie al silicone. La Storia al maschile, quella che al più, concede che “dietro ogni grande uomo ci sia sempre una grande donna”, quella che tentando di giustificare il perpetrare del potere maschile, contrappone il patriarcato pubblico al matriarcato del privato, comincia a cedere il passo alle narrative di donne che si sono impegnate in prima persona, intaccando quote di privilegio maschile e guidando il corso di eventi collettivi.
E’ il caso di We Want Sex – Made in Dagenham, commedia operaia dell’inglese Nigel Cole, in cui un’alleanza tutta al femminile tra le operaie Ford in sciopero e una ministra laburista lungimirante, sblocca una vertenza sindacale, col risultato di vedere riconosciuto per la prima volta il diritto alla parità retributiva.
Altro film inglese, altra storia basata su fatti realmente accaduti, Oranges & Sunshine di Jim Loach, ci introduce alla criminale tragedia delle migliaia di bambini inglesi indigenti deportati in Australia e lì costretti a lavorare e a subire violenze e soprusi negli Istituti gestiti della Chiesa cattolica. Anche qui, sarà il corag
gio di una donna, l’assistente sociale Margaret Humphreys, a far saltare il coperchio dello scandalo, accollandosi in prima persona i rischi e le responsabilità di uscire dall’anonimato e di portare avanti la sua battaglia di giustizia.
Su un altro fronte, in Mother of Rock: Lilian Roxon, bel documentario Usa di Paul Clarke, veniamo trascinati nella NY a cavallo tra ’60 e ’70, quella della Factory di Warhol e del Max’s Kansas City, scoprendo il ruolo di avanguardia giocato dalla spregiudicata giornalista rock di origine australiana nella nascita e nel consolidamento della scena contro-culturale artistica newyorkese.
Grandi donne, dietro alle quali non sempre si nascondono grandi uomini.