Simon Raynolds con il suo illuminante Post punk (1978-1984), aveva tentato un sorprendente rovesciamento di alcune verità che negli anni si sono sedimentate troppo facilmente tra i seguaci della cultura pop in generale e tra gli appassionati di mitologia punk in particolare. Smontando alcuni ‘remunerativi’ clichè il critico musicale inglese ci racconta nel suo mirabile saggio che in fondo i protagonisti della generazione “no future” non erano poi tutti così incapaci con gli strumenti in mano e al netto della loro vita votata al disfacimento e all’orgogliosa insipienza musicale, osservando meglio, qualcosa di edificante saltava fuori.
Se Johnny Rotten vomitava deliri iconoclastici, John Lyndon (il suo vero nome) faceva sfoggio di ascolti krout rock e idolatrava (noi con lui) gruppi come Neu!, Can e Faust, band che con le loro sperimentazioni di respiro cosmico avevano aperto strade dentro le quali si erano infilati numerosi gruppi nel corso dei seventie’s. Alla faccia del decennio definito ‘deserto culturale’. Dunque andiamoci piano con i luoghi comuni, dice Raynolds. Ma si sa, i luoghi comuni sono la linfa del rock tutto e la sua narrazione si poggia quasi interamente su una letteratura leggendaria, quando non propriamente fantastica. Ci viene in mente a tal proposito l’outing autoindulgente di Jhon Ford: ‘Sono interessato al mito più che alla storia’. Sta di fatto che il movimento punk, le sue storie, la sua mitologia, trovano continuamente espressione e voce in varie declinazioni: romanzi, graphic novel, biografie, documentari, cinema. In quanto esemplare fenomeno globale antelitteram, ogni paese ha avuto la sua ‘scena’ punk.
Il film di Lukas Moodysson, compie un’incursione nell’adolescenza di due teenagers svedesi, tema caro al regista (Fuckin’ Amal, Toghether) rendendo il proprio affettuoso omaggio alla Stoccolma (post)punk. Lo fa scegliendo un tono lieve, non privo di qualche accento paternalistico nei confronti delle tre brave protagoniste, tutte alle prese con una complessa vita relazionale a cominciare da quella familiare. Le tre amiche si rifugiano in una sorta di isolamento che le separa dal conformismo che le circonda e le mette al riparo dalle ferite che la vita è pronta a infliggere loro. Essere punk è la loro ingenua volontà e il loro tratto identitario, ma Moodysson caratterizza i tre personaggi principali come ragazzine che affrontano la vita con le fragilità e il senso di inadeguatezza proprie dell’adolescenza comune, mentre intorno a loro il mondo degli adulti sembra non avere strumenti adeguati di dialogo o di comprensione.
Il film si ispirà alla graphic novel di Coco, moglie del regista, il quale ne rispetta la dimensione orizzontale della scrittura. Le avventure delle tre protagoniste si succedono così lungo una linea narrativa che manca di picchi drammatici mantenendo invece un tono di leggerezza, che sembra essere il riflesso dell’affetto che Moodysson prova per esse e per il loro immaginario. Nè un film punk (manca di ferocia), nè un film sul punk (il focus è stretto sui personaggi) insomma. Cos’è il punk se non un’attitudine?