di Maria Giovanna Vagenas

Vogter, il secondo film, molto atteso, del regista svedese-danese Gustav Möller che si era fatto conoscere in ambito internazionale con The guilty (2018), proiettato nel concorso internazionale della Berlinale è un psicodramma che si svolge in ambito carcerale. Da sempre affascinato ed intrigato da questo mondo Gustav Moller, che ha scritto anche questa volta la sceneggiatura con Emil Nygaard Albertsen, mette al centro della vicenda una donna, Eva Hansen, interpretata dalla splendida Sidse Babet Knudsen -che molti conoscono per averla vista come protagonista della serie Borgen-  qui nel ruolo di una guarda carceraria. Per Gustav Möller la prigione è uno spazio cinematografico intenso, abitato da personaggi estremi, retto da regole chiare e precise, definito da una forte dinamica di potere, un luogo pieno di simbolismi e di figure archetipiche che, narrativamente parlando, risulta particolarmente fecondo. Vogter, il titolo del film, significa in danese guardia carceraria.

Eva è sensibile, amichevole e sinceramente interessata al benessere dei prigionieri di cui si occupa- il film inizia con una scena in cui la si vede aprire la mattina le celle dei vari convitti di cui conosce tutti i nomi domandando loro con sorridente come stanno e se hanno trascorso una buona notte. Fra le varie attività che svolge in carcere c’è anche una sessione di meditazione in cui Eva cerca di portare un po’ di pace e di serenità nell’animo travagliato dei coatti.

La sua vita sembra seguire una routine ben oliata finché un giorno la vediamo osservare con apprensione l’arrivo di un nuovo gruppo di prigionieri e, improvvisamente, perdere il suo usuale sangue freddo. All’origine della sua inquietudine c’è un nuovo carcerato, un ragazzo, alto e sgraziato, Mikkel, interpretato in modo particolarmente convincente da Sebastian Bull, che verrà assegnato subito al tratto di massima sicurezza della prigione riservato ai criminali più pericolosi.  Eva lo accompagna lungo il tragitto verso questa parte della prigione ma giunta davanti all’inferriata che vi da accesso è forzata a fermarsi, non avendo l’autorizzazione per lavorare in questo settore del penitenziario.

La sceneggiatura del film riesce, fin dalle prime sequenze, a costruire sapientemente un clima di tensione costante, svelandoci, poco a poco, le ragioni dei comportamenti dei vari personaggi. Il legame fra Eva e il nuovo prigioniero verrà alla luce solo gradualmente lasciandoci, per un buon tratto, nel dubbio di quale possa essere la vera natura del suo rapporto con lui. Ad un certo punto scopriremo che Mikkel è l’assassino di suo figlio, che aveva selvaggiamente ucciso qualche anno prima con una serie di coltellate per un non nulla in una prigione per delinquenti minorenni.

Questa circostanza inattesa mette la vita di Eva sotto sopra. Travolta dalle emozioni la donna chiede- senza ovviamente mai svelare a nessuno dei suoi colleghi la natura del suo rapporto con xxx- di venire trasferita nel tratto di massima sicurezza per poterlo avere sotto mano. Eva si trasforma in un vero e proprio aguzzino del ragazzo, sfruttando ogni occasione per rendergli la vita impossibile. Quando viene a sapere che si sta organizzando una razzia a sorpresa nelle varie celle giunge perfino a fabbricare delle false prove per accusarlo di detenere un’arma bianca e della droga ma, durante l’incursione, perde completamente il controllo ed entrando per prima nella sua cella lo prende a manganellate, ferendolo gravemente.Commessa davanti agli occhi di tutti, quest’aggressione non rimane senza conseguenze. Il rappresentante legale della prigione le annuncia che il prigioniero, se vuole, può sporgere denuncia per l’aggressione subita, Eva stessa rischierebbe in questo caso do finire in prigione se giudicata colpevole. Questo fatto capovolge, d’un tratto, il rapporto di forza fra Eva e Mikkel che ormai la tiene in pugno ed è in grado di ricattarla quotidianamente per ottenere varie agevolazioni. Inizia cosi un sottile gioco di potere in cui l’aguzzino diventa la vittima. Fino a che punto Eva sarà disposta a lasciarsi fare? Come si comporterà nei suoi confronti l’imprevedibile e violento Mikkel?

Il grande pregio di questo thriller psicologico –  costruito con perizia sulla reversibilità dei rapporti di potere-  e di tenerci con il fiato sospeso fino all’ultimo, immergendoci in un universo che sembra essere senza uscita, come senza uscita sembra essere anche il dilemma morale nel quale Eva si dibatte, senza più riuscire a distinguere il bene dal male, la giustizia dall’ingiustizia, prigioniera di una trappola nefasta. La cinepresa segue virtuosamente i movimenti dei corpi, lungo una serie di tragitti sempre uguali, nell’esiguità degli spazi, che sembrano opprimere non solo i criminali ma anche coloro che li custodiscono, rinchiudendoli in un sistema di regolamenti rigorosi, di gesti calibrati, di comportamenti codificati. Eva, spesso inquadrata in primo piano, conduce un’esistenza segreta e solitaria- la sceneggiatura non si mai sofferma a descrivere i suoi rapporti con i colleghi, né la sua vita al di fuori del carcere, ma la descrive come ossessionata del suo stesso dolore e da una volontà di vendetta incontrollabile. Il suono e la colonna sonora, composta da Jon Ekstrand, contribuiscono magistralmente a sottolineare un senso perenne di potenziale pericolo, mentre la fotografia, giocando con un ventaglio di colori smorzati, c’immerge perfettamente nel grigiore quotidiano dell’ambiente carcerario. Eppure, nonostante questa pellicola sia piena di suspense, di svolte inattese e venga brillantemente interpretata dai suoi due protagonisti-antagonisti, alla fine non riesce a coinvolgerci veramente sul piano emotivo. Le motivazioni dei suoi protagonisti sono ermetiche, le loro reazioni sono oscuramente istintive e la loro relazione rimane superficialmente relegata ad un rapporto di forza mentre avrebbe potuto costituire il punto di partenza per un’introspezione psicologica più complessa e per uno sviluppo dei personaggi più sottile e meno schematico.

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