Quando nel 1998 Thomas Vintenberg realizzò la sua folgorante opera seconda, Festen-Festa in famiglia, il movimento del Dogma, fondato nel 1995 dal mentore Lars Von Trier e da altri giovani autori danesi con l’intenzione di restituire una nuova verginità al linguaggio cinematografico, eliminando ogni artificio tecnico e narrativo, si trovava all’apice della sua esplosione, il fenomeno antagonista con cui doveva fare i conti la paludata cinematografia europea.
Festen sembrava riassumere compiutamente in sé tutti gli aspetti che l’estetica del Dogma imponeva ai suoi adepti: macchina a mano, utilizzo della luce naturale, unità di tempo e di luogo per quanto riguarda lo svolgimento dell’azione, bandito l’uso di colonna musicale extra-diegetica, nessun artificio che potesse alterare l’integrità della storia raccontata. Una storia, quella di Festen, che a dir il vero non raccontava nulla di particolarmente nuovo o sconvolgente: un inferno di famiglia borghese dove aleggiava, come ulteriore elemento disturbante, il fantasma della pedofilia ma in cui la rappresentazione di dinamiche violente, grottesche, malate all’interno di un nucleo umano e sociale molto chiuso erano già state raccontate dentro lo sguardo dei Grandi Autori (Bunuel, Ferreri, Fassbinder solo per fare qualche nome…). Quello che apparve vivo e vibrante era proprio il modo in cui questa storia che conteneva in sé tematiche già esplorate dal cinema e anche dal teatro (August Strindberg, il Kammerspiel tedesco), l’aria selvaggia, brutale, contenuta nell’implacabile crescendo in cui i figli attorniavano questo avido, viscido, possessivo padre/padrone fino a farlo regredire alla dimensione fisica e morale di un porco destinato al macello.
Si trattava di un cinema che non lobotomizzava il nervo ottico su un rassicurante ed edulcorato immaginario, ma aggrediva quell’immaginario senza compiacimenti gratuiti, con l’intenzione di scardinare attraverso la forza dell’immagini un apparato di valori ormai stantio, divorato dai tarli dell’ipocrisia benpensante e sepolto sotto la muffa di un fasullo benessere. Che la famiglia allargata e disturbata di Festen potesse essere letta come la metafora di un cinema che voleva mettere a tacere la riflessione dello sguardo e sintonizzare sull’omologazione dei pensieri e delle visioni era un altro elemento che ben rientrava nelle intenzioni militanti del Dogma. Ma lo stesso anno in cui uscì Festen, Lars Von Trier, spiazzando forse un po’ tutti compresi i suoi adepti, concepì Idioti, film-testamento del Dogma, in cui il tentativo di un gruppo di giovani danesi di opporsi al sistema e alle convenzioni della società borghese fingendosi ritardati mentali, idioti puri di cuore indifferenti alle regole del vivere comune, falliva miseramente e, diremmo, tragicamente davanti alla constatazione di come la rigidità di certi principi a volte si sgretoli di fronte all’indeterminatezza della vita.
Alla stesa maniera le rigide convenzioni estetiche e narrative che Vintenberg aveva abbracciato con il Dogma, crollarono davanti alla possibilità di poter realizzare una grossa produzione con capitali americani e cast stellare – Joaquin Phoenix, Claire Danes, Sean Penn – e, ancor di più, con una trama stellare che se ne infischiava di rispettare una qualsiasi parvenza di regola aristotelica. Il film in questione venne titolato in italiano Le forze del destino, che già ci portava molto lontano da quella dimensione intimista della Festa in famiglia, ed era un indigesto miscuglio di noir di fantascienza e melodramma sociale, ambientata in un futuro scontatamente orwelliano dove l’amore, più che il destino, sembra l’unica risposta alla disumanizzazione tecnologica e scientifica. Vintenberg non avrebbe potuto fare un salto più lontano rispetto all’esperienza del Dogma e l’impressione che diede era quella di aver potuto finalmente liberare il suo estro più scatenato dalle strettoie anguste di regole da seguire. Alla luce di questa opera terza ci si potrebbe chiedere se non fosse lui quel padre avido i cui figli reprimono i pur perversi impulsi.
Un tradimento così radicale delle sue origini non poteva che essere ripagato con una negazione altrettanto netta da parte del pubblico e della critica e da un ritorno obbligato ad abbassare il suo sguardo all’altezza di personaggi più aderenti alla realtà e recuperare lo spirito iconoclasta e provocatorio degli esordi. Proprio per questo fu Lars Von Trier a scrivere la sceneggiatura di Dear Wendy, western allegorico che diventava una lucida, sconsolata riflessione sulla maniera barbara in cui viene esercitato il controllo delle armi nella società americana. La storia di un gruppo di adolescenti senza identità che abitano una spettrale cittadina di provincia e che diventano i promotori di un modello di “pace armata” (ovvero possedere delle pistole senza mai usarle contro il prossimo), offriva molte frecce all’arco di Vintenberg da scagliare questa volta contro quel sistema americano di valori alterati e di contraddizioni che deviano, indeboliscono e, in alcuni casi, uccidono generazioni di giovani senza scelta, costretti a riversare la loro passione dentro il nome di una pistola. Ora il problema è che l’arco doveva essere almeno in parte inceppato o magari non manovrato con la dovuta precisione, fatto sta che il conseguente risultato impediva di rinnovare il fuoco, l’energia distruttiva, la necessità che avevano animato Festen, riducendo la valenza ancora più provocatoria di Dear Wendy e il suo amarissimo apologo (le armi e il loro possesso generano inevitabilmente violenza) nello svolgimento di un compito a tratti anonimo come le vite dei ragazzi che vuole raccontare, dove il distacco, la non partecipazione e in alcuni momenti la non comprensione della materia da parte dell’autore risultano imbarazzanti.
“Volevo fare un film pieno di luce e di colore…”
Cosi Vinternberg ha presentato il suo ultimo lavoro, Riunione di famiglia, all’ultimo festival del cinema di Roma, ed è stata sicuramente una scelta saggia quella di tornare nella sua Danimarca, di quietare dentro di sé le inquietudini e le rabbie, e di portare un bagaglio di rasserenata maturità interiore che ora, dieci anni dopo Festen, gli consente di guardare a quella stessa storia in una chiave di pacata ironia e di vitale sensualità. Non più imbrigliato dentro nessuna convenzione estetico-
narrativa nessuna trappola produttiva o altisonanti riflessioni sull’umanità, finalmente ci troviamo di fronte a un tipo di cinema che non pretende di essere altro che intrattenimento, dove l’intreccio, finalizzato a portare avanti la storia e le situazioni oscillanti tra il comico e il commovente, non mira a scardinare l’istituto familiare, visto anzi in un’ottica di tenera, bonaria tribù che accoglie e perdona. Il ritorno a casa del celebre cantante lirico Karl Kristian Schmidt nella sua bucolica cittadina di provincia dov’è nato (descritta effettivamente nell’esplosione di luce e colori di cui parlava Vintenberg) e l’inevitabile scompiglio che porta all’interno della piccola comunità è raccontato con una semplicità, una leggerezza necessaria com’era necessaria la
foga di Festen, che convince più della vacuità della storia, anche questa raccontata tante altre volte. E lo sguardo di Vintenberg si rispecchia dentro lo sguardo puro del protagonista Sebastian, che esprime una carica vitale senza compromessi e si immerge dentro le situazioni da pochade cucinando, facendo l’amore, facendo a botte, giungendo con la sua devastante, irresistibile fisicità alla scoperta di essere il figlio segreto dell’ammirato cantante lirico, a sua volta uomo gaudente, contradittorio. Vivo.
Dopo tanti salti, tante fughe e tanti ritorni ci auguriamo che Vintenberg abbia trovato e si sia riconciliato con quel “padre” che gli aveva ispirato tanto livore e a cui ora concede perfino un abbraccio e un augurio per il futuro. A volte non occorre un colpo di pistola, si può fare centro anche con la delicatezza di un fioretto.
mi è piaciuto, un cinema libero, molto cassavetesiano nell’uso di volti, ombre e luci. E un padre così si può anche perdonare.