Di Maria Giovanna Vagenas / Poesia e dolore, elegia e mistificazione compongono in Season of the devil (Ang Panahon Ng Halimav) il canovaccio della melodia dissonante, straziante e reiterativa di un paese dilaniato dal terrore della dittatura.
Per la prima volta Lav Diaz si cimenta in quello che potrebbe essere definito, almeno sulla carta, come un musical – i dialoghi sono infatti sostituiti dalle canzoni- ma lo fa sconvolgendone i codici non solo perché si rifiuta di riprodurre l’estetica levigata e i movimenti coreografici elaborati propri del genere – i suoi attori si muovono poco durante il canto, sono abbastanza rigidi nei oro movimenti, o restano addirittura immobili – ma soprattutto perché le canzoni, cantate esclusivamente a cappella, sono molto più vicine ad una litania liturgica da un lato e ad un martellamento ossessivo dall’altro, per potere essere classificate sotto l’etichetta di musical, nel senso corrente del termine.
La musica di Season of the devil è una marcia funebre per le Filippine.
Il film è ambientato durante il periodo della legge marziale inaugurato da Marcos nel 1977 con un decreto presidenziale che prevedeva la creazione della CHDF, un’organizzazione paramilitare che arruolò 70000 civili, armandoli per lottare contro i comunisti e il gruppo dei secessionisti di Mindanao. Questo fu uno dei momenti più cruenti della storia moderna delle Filippine; migliaia d’innocenti furono crudelmente torturati ed uccisi, lasciando una ferita indelebile nel tessuto sociale del paese.
Season of the devil si nutre dei ricordi personali del regista, sorge da un dolore e un lutto concreto, da volti e storie di amici e di persone che Lav Diaz aveva conosciuto in quell’epoca e che hanno pagato con la vita il loro dissenso con il regine di Marcos.
La vicenda si svolge nel 1979 in un piccolo villaggio del sud delle Filippine ed è un tributo alla memoria di tutte queste vittime.
Il mondo schizzato dal regista è profondamente diviso, scisso e duale: fra il bene e il male, i personaggi crudeli e malvagi della milizia da un lato ed il resto della popolazione dall’altro non esiste nessuna mediazione possibile. Vige un’unica legge: quella della mistificazione e del sopruso. La narrazione si struttura intorno a questi due gruppi: gli aguzzini e le vittime.
Nella prima sequenza del film assistiamo ad una scena cruciale: il comandante delle milizie – il personaggio più crudele ed inquietante del film – ed il suo aiutante stipulano un patto diabolico: devono creare una situazione di caos, destabilizzare la popolazione per poi poterla manipolare a loro piacimento. Le loro armi sono la mistificazione ed il terrore, il loro alleato é Narciso, il leader a due facce…
Di fronte a questo squadrone della morte il poeta Hugo Haniway, sua moglie, il medico Lorena Haniway, i loro amici ed il saggio del villaggio di Ginto, hanno poche speranze di salvarsi. Il film si snoda come un lungo viaggio nelle tenebre, un viaggio disperato e senza uscita.
Gli eroi avanzano sul filo di canti struggenti e pieni di nostalgia, reiterando dolorosamente dei versi poetici, mentre i loro carnefici scandiscono all’infinito dei ritornelli senza senso, fatti di parole incomprensibili, slogan ipnotici di un’ideologia fascista che può imporsi solo attraverso il costante condizionamento dell’altro.
In quest’allucinazione senza fine i personaggi reali si mischiano a figure mitiche del folclore locale: il serpente, il saggio, la civetta, la strega, l’uomo bifronte invitandosi tutti a questo banchetto macabro di soprusi e violenze. Come una via crucis, il film è punteggiato dalla morte successiva di tutti coloro che non si schierano dalla parte della milizia.
Il linguaggio allegorico rimanda alla realtà e, inequivocabilmente, mette in evidenza legami profondi che esistono fra il passato ed presente delle Filippine. La storia di allora si ripete oggi, ancora. Questo è il messaggio del film. Un grido, un’allerta, un invito alla resistenza.
LA PAROLA AL REGISTA
Presentato in concorso alla Berlinale, Season of the devil è stato selezionato dalla Viennale nel suo programma di lungometraggi, un’ occasione preziosa per rivedere il film su grande schermo ed approfondire con Lav Diaz il discorso sul film iniziato a Berlino.
Quest’inverno, il regista temeva delle rappresaglie ed era molto preoccupato per la sua incolumità. Contro ogni aspettativa, il film è uscito qualche mese fa in sala a Manila.
Lav Diaz spiega che questo, apparente, miglioramento della situazione non è dovuto ad un cambio di rotta del governo ma semplicemente al suo disinteresse per il mondo dell’arte: “Comunque – aggiunge con un sorriso- quando esco di casa mi metto sempre un berretto in testa per non essere riconosciuto. Ormai ne ho una collezione intera! Bisogna cercare di proteggersi, non c’è altro da fare!”
Potresti parlarci della genesi del film?
Verso la fine del 2016 ero a Harvard e stavo scrivendo un nuovo progetto; un film di gangster che avremmo dovuto girare l’anno seguente. Mentre stavo scrivendo la sceneggiatura, un nuovo Presidente, Duterte, uomo sanguinario e dispotico, ha preso il potere nelle Filippine. In questo stato d’animo ho iniziato a scrivere delle canzoni su quanto stava succedendo nelle Filippine ma anche negli stati Uniti con l’avvento di Trump. Leggevo i giornali ed ogni giorno mi arrivavano sempre nuove notizie terrificanti non solo su Duterte e Trump ma anche su Assad e Putin…
Mi sentivo soffocare quotidianamente da questo grosso blocco di despoti e dittatori nel mondo, così ho iniziato a protestare e a reagire scrivendo delle canzoni o piuttosto delle litanie per denunciare il ritorno nel mio paese di un tipo di situazione politica che pensavo appartenesse ormai definitivamente al passato.
Purtroppo la storia sembra ripetersi: sono cresciuto durante il periodo della legge marziale imposto dalla dittatura di Marcos, un periodo estremamente brutale e sanguinario per il mio paese.
Per queste ragioni, come dicevo prima, ho iniziato a scrivere delle canzoni: n queste canzoni-protesta esprimevo all’inizio la mia preoccupazione e il mio dolore per quanto stava succedendo. Mentre continuavo a lavorare sulla sceneggiatura del film sui gangster, ma ne scrivevo ogni giorno sempre di più e ad un certo punto mi sono reso conto che ne avevo già scritto tantissime così mi sono detto che forse avrei dovuto piuttosto fare un musical!
A che tipo di musica ti sei ispirato per scrivere le canzoni del film?
Noi filippini abbiamo da sempre il canto nel sangue; già prima della colonizzazione spagnola eravamo abituati ad esprimere i nostri pensieri e le nostre preoccupazioni sotto forma di canzoni. Questo tipo di “lamento” si rifà alla tradizione delle veglie funebri che duravano una giornata intera: tutti i parenti del morto cantavano a turno il loro dolore per la perdita della persona cara, descrivendo la sua vita, il suo carattere, le sue azioni.
Le nostre canzoni tradizionali sono dei racconti orali sotto forma di lamento; nelle mie canzoni ho associato questa forma allo spirito della musica rock e alle litanie che cantiamo durante la settimana santa accompagnando la passione di Cristo.
Le canzoni del film dunque sono un misto di tutti questi elementi ai quali, ovviamente, ho poi aggiunto una narrazione.
Ho creato la linea narrativa del film partendo da delle persone reali che conoscevo bene, da amici e compagni che sono stati vittime del periodo della legge marziale.
All’inizio le canzoni che avevo scritto erano tutte molto diverse fra di loro, quando però ho iniziato a lavorare più concretamente sulla struttura narrativa del film ho dovuto adattare man mano i testi delle canzoni ai caratteri dei personaggi che stavo creando.
Quando Narciso, il leader bifronte, figura simbolica di Marcos, prende la parola quello che sentiamo è uno sproloquio in una lingua inesistente ed incomprensibile. Come hai costruito queste scene?
I discorsi di Narciso sono un misto di brandelli tratti da discorsi di Stalin, Marcos, Duterte e Hitler che ho semplicemente scritto all’inverso. Sono incomprensibili e privi di senso come l’ideologia fascista che veicolano basata sul male e la violenza.
Purtroppo nelle Filippine in questo momento assistiamo ad un ritorno del revisionismo: Marcos è riabilitato, suo figlio, che è senatore, ha delle ottime probabilità di diventare presidente alle prossime elezioni, sua moglie, la terribile Imelda, è un membro del congresso, sua figlia è una governatrice. E veramente incredibile però, al giorno d’oggi, molti filippini pensano che l’epoca di Marcos sia stata uno dei momenti migliori della nostra storia. Bisogna essere vigilanti e soprattutto bisogna essere pronti a reagire, a ribellarsi e a combatterli usando i nostri strumenti di lotta che sono l’arte e la cultura, anche perché se qualcuno osasse scendere per strada a manifestare verrebbe semplicemente ucciso.
I personaggi sI dividono in due categorie; i buoni e i cattivi ma c’è anche personaggio, molto particolare la cuentista, la “narratrice” che è al di là di queste due categorie. La narratrice è l’anima lirica del poeta che in seguito alla morte violenta di sua moglie non riesce più né ascrivere, né a cantare. Potresti parlarci di questo personaggio?
Il processo di ricerca di un filo narrativo per il film e di una traiettoria per i vari personaggi è stato molto difficile.
Ad un certo punto la struttura del film è diventata molto concettuale, per cui ho utilizzato dei caratteri della mitologia malaia : il serpente e la civetta ad eccezione del personaggio di Narciso che impersona Duterte e Marcos, si rifà al personaggio della mitologia greco-romana di Giano Bifronte.
Detto questo, tutti i personaggi del film mi sono stati ispirati da uomini e donne che ho conosciuto personalmente, vittime del regime di Marcos durante il periodo della legge marziale. Il film si svolge nel 1997, questo è un periodo che conosco bene, a quell’epoca frequentavo il college; nei miei ricordi quel tempo si è fissato come uno dei momenti più cupi della nostra vita nelle Filippine, nonostante i nostri sforzi per opporci a quanto stava accadendo dimostrando per le strade e cercando di combatterli in vari modi: per tutti questi motivi quest’epoca mi è molto famigliare.
La cuentista, la narratrice, porta nel film la lamentazione malaia; questa è il modo tradizionale con cui raccontiamo delle storie nelle Filippine, tutti seduti intorno ad un albero di mango oppure in una risaia, dolendoci delle nostre sofferenze, dei nostri tormenti e dei nostri traumi in una maniera molto simile a quella del blues afro-americano, nato nei campi di cotone del Sud degli Stati Uniti.
Bituin Escalante che impersona la narratrice è una cantante eccezionale ma è anche un’attivista politica molto in vista.
Durante il casting del film per noi era fondamentale capire la posizione politica degli attori; chi ha lavorato con noi non è un sostenitore né di Marcos, né di Duterte.
Per delle ragioni di sicurezza abbiamo deciso di non girare il film nelle Filippine ma in Malesia; in un modo o nell’altro non avremmo mai ottenuto il permesso della polizia per il semplice fatto che si sarebbe subito resa conto del contenuto anti-governamento del film. Nelle Filippine il significato del film è immediatamente evidente anche perché alcuni attori sono degli attivisti famosi: Bituin Escalante, come dicevo prima, anche Joe Sarrazo, l’attore che impersona l’Haha è un attivista molto conosciuto che ha agito per molto tempo underground ed è membro del partito comunista, infine il padre di Barkin Gora è un membro dell’opposizione.
Nel tuo film ci sono anche due grandi star delle Filippine: Piolo Pascual e Shaina Magdayao. Come sei riuscito a coinvolgerli in questo progetto ?
Ho chiesto a Piolo e a Shaina di collaborare questo film spiegando loro che il loro lavoro non consiste semplicemente nel fare spettacolo ma che, in quanto artisti, hanno della responsabilità nei riguardi della nostra cultura. Ho detto loro: “Dovete partecipare affinché i Filippini vengano a vedere il film!” Così è stato! La gente è venuta a vedere Season of the devil grazie alla loro presenza nel film. Entrambi hanno capito di dovere giocare un ruolo importante in seno alla nostra cultura. Se siamo riusciti a mostrare il film nel circuito dei cinema commerciali nelle Filippine è stato solo grazie a loro. Purtroppo il film è stato proiettato solo durante una settimana, poi i distributori l’hanno tolto dalla circolazione, inoltre abbiamo potuto mostrarlo solo in due o tre centri commerciali minori, i centri commerciali più importanti non ci hanno permesso di farlo perché sarebbe farlo stato politicamente troppo compromettente per i loro proprietari.
Come hai composto le musiche? Perché hai scelto di fare cantare i tuoi attori a cappella?
Ho composto la musica direttamente sulla mia chitarra e ho semplicemente registrato le canzoni davanti ad una cinepresa, è un metodo molto rudimentale! (ride)
In un secondo tempo ho dato le canzoni registrate agli attori e all’equipe di produzione, le hanno studiate e poi ho proposto loro di lavorare intorno a queste canzoni.
Volevo che queste canzoni fossero nude, senza strumentazione; nonostante il musical sia un genere con delle regole estetiche molto precise, l’idea che avevo in mente per il mio film non aveva nulla a che vedere con il modo elaborato e molto curato con cui si concepiscono i musical a Broadway o a Hollywood.
Volevo un’estetica ruvida, grezza. Ho detto ai miei attori che, se avessero stonato, non sarebbe stato grave, in questo modo il tutto è diventato molto più organico, nonostante ciò abbiamo mantenuto una disciplina rigida rispetto alle melodie, alle misure, al ritmo e alle rime… Ho cercato di spiegare ai miei collaboratori che non avrebbero dovuto considerarsi come degli attori che cantano ma che avrebbero dovuto semplicemente considerare le canzoni come un dialogo. Le canzoni sostituiscono il dialogo in Season of the devil e questo era anche il concetto di base del film.
A cosa ti sei ispirato per scrivere il ritornello : « La, La la ! »
« La, la, la », il ritornello che viene ripetuto perennemente nel film é un’ esemplificazione del fascismo; la ripetizione e il bombardamento crea del condizionamento e d’altra parte questo ritornello ripetuto ad oltranza serve anche a fare scomparire ogni altra voce, a cancellarla, chi lo canta non vuole sentire altro che la propria opinione, il proprio punto di vista.
Chi canta la canzone dei titoli di coda?
Sono io! Ma dovrei chiedere scusa per la pessima qualità della mia performance… di fatto la canzone così come la sentite era all’origine semplicemente una “demo”…
In che modo le canzoni hanno influenzato i piani del film, la loro durata, l’inquadratura?
Già durante le riprese mi sono reso conto che sono veramente abituato a girare dei piani lunghissimi ma di fronte alle canzoni ho capito che, ad un certo punto, bisognava smettere di girare. Quando la canzone finisce bisogna dire cut! Questa è la disciplina che mi ha dettato il genere! (risate)
Come si è svolto il lavoro sul set?
Season of the devil è stato per me un esperimento in un genere che non avevo mai praticato prima. Durante i primi due giorni di riprese avevamo tutti dei dubbi e ci domandavamo se quanto stavamo facendo avrebbe funzionato ma, a partire dal terzo giorno, abbiamo cominciato a rilassarci, a perdere i dubbi e le inibizioni dell’inizio e ci siamo completamente immersi in quella che io chiamo la “zona”, uno spazio, un’atmosfera speciale, magica che si crea durante un rodaggio.
Quando si fa cinema bisogna raggiungere la ‘zona’, questo stato mentale completamente a parte che ti trascina e ti fa andare avanti. Dal momento in cui si raggiunge questo stato, tutto va per il meglio; c’è un qualcosa di magico che succede e si sente, si percepisce.
Quanto sono durate le riprese?
Le riprese sono durate 22 giorni; dalla metà di gennaio alla metà di marzo. Il periodo di rodaggio è sempre abbastanza lungo ma bisogna immaginare che non giriamo di continuo, ci sono molti tempi morti in cui passiamo del tempo gli uni con gli altri, ripetiamo le canzoni, riflettiamo sul film mentre io continuo a lavorare ancora alla sceneggiatura e i dialoghi adattandoli mano a mano. Il tutto è un processo molto organico, libero, in divenire. Restiamo sempre all’ascolto di quanto succede e siamo pronti a modificare delle scene, a toglierne o ad aggiungerne delle altre quando è necessario. Seguiamo il flusso del film in fieri e ci adattiamo, è un bene che sia così!
Quanto materiale hai tagliato al montaggio?
Non molto, a dire il vero, perché lavoriamo in un modo molto preciso; per ogni scena facciamo da tre a cinque riprese, al massimo sette ma non di più. In fin dei conti la maggior parte delle scene che si vedono nel film sono delle prime o seconde riprese perché sono le più oneste, le più spontanee. Se vanno bene preferisco sempre tenere queste!
Il leader dei paramilitari è interpretato da una donna?
Si, in effetti! Si tratta di Hazel Orencio. Oltre ad essere un’attrice meravigliosa Hazel è anche la mia assistente alla regia.
Come dicevo prima, la costruzione del film è stata molto concettuale; il momento in cui ho iniziato ad assegnare i diversi personaggi agli attori Hazel è rimasta di stucco quando ha visto che avrebbe dovuto interpretare un ruolo maschile, poi ha iniziato ad immergersi nel ruolo, cercando di comportarsi come se fosse un uomo ma non è stato semplice per lei. Il primo giorno delle riprese si è messa a piangere perché pensava di non farcela. L’ho messa veramente sotto pressione ma alla fine ce l’ha fatta!
Ai miei attori dico sempre di non giudicare il personaggio che devono interpretare: se sei malvagio, sei malvagio, punto e basta! Bisogna immergersi nel personaggio, abitarlo. Nel momento in un attore inizia a giudicare il suo personaggio, fa dei compromessi ed è spacciato…
La scena dello stupro in cui Hazel ha dovuto interpretare l’aguzzino è stata particolarmente dura per lei; abbiamo dovuto riprendere le riprese più volte perché non era in grado di assumere la perversione e la malvagità del personaggio… Non bisogna mai giudicare un personaggio, bisogne semplicemente essere quel personaggio!