Filmi spesso i personaggi di spalle seguendo il loro faticoso cammino in montagna, come se la cinepresa stessa fosse l’ultima persona del gruppo. Perché questa scelta?
In questi ultimi anni si parla tanto di migrazione, se ne parla tanto ma in modo paradossalmente astratto; l’esperienza completa di un corpo che cammina, che fatica, che si muove, che segna il passo, segna il tempo, che ha un’altra temporalità, non viene mai considerata, discussa.
Non è la temporalità della città, né quella della montagna, ma è quella propria del cammino. Abbiamo pensato che questo fosse uno degli elementi più interessanti da mettere in gioco nel film. Non volevo che l’esperienza della migrazione risuonasse semplicemente nel titolo, decisamente esplicito, del film: “Gli indesiderati d’Europa” come un commento a pie di pagina, separato dall’esperienza fisica concreta di un migrante che soffre, che ha passato ore ed ore in cammino.
Proprio perché eviti di mostrare le cose in modo programmatico chi guarda il film s’immedesima impercettibilmente con la posizione della cinepresa.
Il problema di tanto cinema di oggi è che è tutto un commento; non c’è un’esperienza concreta, c’è soltanto il commento testuale. L’esperienza estetica invece è un’esperienza concreta, fisica. Di fronte a questo tipo di lavori si sente, inevitabilmente, un senso di vuoto. Questa é una posizione di comodo, una posizione di distanza totale dalle cose. Secondo me invece quando parliamo di un’esperienza cinematografica la visione è sempre un qualcosa che va rincorso…poi, ovviamente, questa visione, questo qualcosa, quest’ esperienza non arriverà mai nel momento in cui la rincorri, arriverà in un momento magico, di meraviglia, come diceva Leopardi. Resta di fatto che per essere ‘visitati’ bisogna rincorrere le cose, bisogna lavorare e rincorrerle perché se no, non si è visitati da nulla!
Verso la fine del film c’è una sequenza straordinaria che ci rimanda alla sorte che incombe inesorabilmente su Benjamin. Mentre Benjamin cammina seguendo a stento i suoi compagni di viaggio la cinepresa, che lo aveva seguito fino a quel momento filmandolo di spalle, si stacca impercettibilmente e parte in una sorta di volo verso l’alto, plana fra le vette degli alberi aprendosi all’infinità del cielo per poi ritornare dolcemente, al suo punto di partenza. In questi istanti il tempo sembra fermarsi.
Si, questo è un momento decisamente antigravitazionale. In tutto il film si sente molto la gravità, la gravità nel doppio senso del termine: la forza di gravità terrestre che riporta tutte le cose verso il basso e la gravità dei fatti narrati che, comunque, sono di per sé drammatici.
Ad un certo punto nel film si arriva ad un raccordo massimo con la montagna, con il posarsi, semplicemente con la presenza dello stare che, non so per quale motivo, rifiutiamo sempre nella nostra vita. In quel momento il film inizia ad essere antigravitazionale e dà allo spettatore la possibilità di fare l’esperienza sensoriale di un momento di sospensione. Tutta questa sequenza è stata girata semplicemente con l’operatore e con la macchina, senza nessuno strumento addizionale, senza droni.
Questo momento di assoluta comunione con il mondo che lo circonda, sembra essere l’attimo in cui Benjamin decide della sua sorte ultima…
I luoghi portano in sé la memoria del vissuto, il sedimento delle esperienze passate, proprio per questo, come dicevo anche prima, bisogna mettersi in una posizione di ascolto, senza passare rapidamente come farebbe un turista, ma cercando di entrare in comunione col vento e con i rumori di questo luogo carico di sofferenza.
Il sentiero che si vede nel film é quello realmente percorso da Benjamin?
Si, è un sentiero che ha fatto Benjamin; si tratta di un crinale che congiunge il primo passaggio di un punto dei Pirenei con un altro che mena poi oltre il confine, è il crinale dove Benjamin effettivamente passò la notte da solo. Benjamin era un cittadino come noi, non era un uomo di montagna, decide di stare lì, passa la notte lì. Benjamin capisce di stare proprio in una sospensione del tempo storico, sul bordo del tempo e riesce a cogliere, grazie a questo simultaneo star dentro e star fuori, il senso di questo movimento. Ho sempre pensato che questa notte di Benjamin in montagna fosse uno dei punti più luminosi di un’esperienza umana. In un momento così cupo, così angosciante, Benjamin decide di restare da solo la notte, al buio, all’addiaccio disteso sul crinale della montagna per poi, inevitabilmente, decidere, il giorno dopo, per altri motivi, di darsi la morte lì, a Portbou.
In questa stessa sequenza c’è anche un momento, molto bello, in cui Benjamin, seduto solo sulla montagna, scoppia improvvisamente in una risata.
Quando Benjamin riesce a trovare un senso più ampio dell’immediatezza del proprio tempo, dell’accadimento storico, inevitabilmente non può che scoppiare in una risata perché tutto diventa insensato. Su quel crinale, in quel tempo sospeso, Benjamin fa esperienza della contingenza umana, l’assume e l’accetta.
Perché hai deciso di girare il film in bianco e nero?
L’ho scelto per due motivi; in primo luogo il bianco e nero ci permette di essere più vicini alla materia, di fare emergere il più possibile la stratigrafia dei corpi, delle cose, mentre il colore inevitabilmente ci allontana, ci porta da un’altra parte e quindi va bene per un altro tipo di film. In secondo luogo il bianco e nero ci permette anche di lavorare su una ‘luminosa oscurità’. L’oscuro, il buio, come anche la notte, può essere il negativo perfetto di una luce immensa; col bianco e nero è più facile lavorare su quest’aspetto perché permette il controllo del lavoro, il colore invece, in un certo senso, è un qualcosa di sfuggente; la percezione che ne abbiamo è dovuta ad un’onda luminosa che non appartiene propriamente alla cosa stessa e crea una sorta di distanza fra noi e le cose. Mi piaceva l’idea di capovolgere questo meccanismo naturale proprio per sottolineare la scelta di un’ avvicinamento all’essenza delle cose.
Il bianco e nero è temperato da due immagini di archivio in colore, una all’inizio e una alla fine del film. Perché?
Mi sembrava interessante iniziare il film con del materiale d’archivio a colori; di solito l’archivio storico é associato ad immagini in bianco e nero. L’archivio che ho utilizzato non è un archivio ufficiale ma fa parte di una serie di filmini privati girati fra il 1947 e il 1951 da gente comune che viveva in questa zona. Rompendo con la percezione lineare della storia, in questa continua sovrapposizione di strati temporali, volevo incontrare anche un’associazione cromatica che potesse esprimere il continuo addensarsi di passato e presente come una variazione continua dello stesso punto, quindi della stessa immagine.
Fra i testi che hai scelto per il film non c’è nessun testo di Benjamin, perché?
Non c’è nessun testo di Benjamin proprio perché non volevamo cercare di ‘tradurre’ il pensiero di Benjamin. Molti spettatori guardano il film aspettandosi un’illustrazione della storia e della filosofia di Benjamin ma per me l’unico modo per incontrare Benjamin era proprio quello di riuscire a proporre il continuo avvicendarsi di pensieri anteriori e posteriori, vicini a Benjamin. La concezione dell’eterno ritorno di Auguste Blanqui, per esempio, fa parte dei testi che abbiamo citato nel film. Benjamin ammirava molto Blanqui e, pur avendo un rapporto conflittuale con lui, considerava la sua concezione dell’eterno ritorno come un’elaborazione interessante, molto più concreta e meno sentimentale di quella di Nietzsche. In questo senso mi sembrava un testo giusto per il film.
Un altro testo che abbiamo utilizzato è un brano di Maurice Blanchot sulla forza del negativo, la forza dell’oscuro, della notte in cui si giocano forse le partite più interessanti dell’essere umano perché, inevitabilmente l’uomo deve affrontare tutto quello che cerca di non vedere durante il giorno.
A questo proposito mi viene in mente un passaggio meraviglioso di Moby Dick in cui Melville dice che anche se abbiamo bisogno continuamente di luce, il momento in cui ritroviamo noi stessi è solo al buio…