Les Unwanted de Europa, di Fabrizio Ferraro s’impone come un’epifania.

Una linea di confine reale diventa nel film –mostrato nella sezione « features » della Viennale- il terreno concreto di una riflessione sul senso della storia e dell’esistenza umana.

Scegliendo di seguire le orme percorse nel 1940, sullo stesso crinale dei Pirenei che separa la Spagna dalla Francia, da due flussi migratori contemporanei ma in direzioni opposte, Fabrizio Ferraro riesce, senza mai cercare un legame esplicito, a creare un corto circuito spazio-temporale che ci rimanda direttamente al presente.

Mentre i repubblicani spagnoli cercavano, invano, rifugio in Francia, vari gruppi di ebrei tentavano di arrivare in Spagna nella speranza di potersi imbarcare per mete più lontane e sicure, fra di loro c’era Walter Benjamin.

Les Unwanted de Europa immagina gli ultimi giorni di vita del filosofo, il suo faticoso cammino verso la salvezza e, infine, la sua decisione di fermarsi, per sempre.

Quanto vediamo accadere sullo schermo è tutt’altro che un tentativo di colmare una lacuna biografica nella vita di Benjamin; l’approccio del regista è concreto, terreno, entra in un dialogo costante con la natura e si nutre profondamente del suo humus. Prima di posare la sua cinepresa, Ferraro ha battuto per anni in lungo e in largo questi sentieri dei Pirenei, ha percorso il cammino dal mare, costeggiando le vigne, serpeggiando fra gli alberi, in salita verso la cima, come l’avevano fatto, tanti anni prima di lui i profughi dalla Francia e dalla Spagna. Ferraro c’invita a guadare con tutti i nostri sensi: il rumore dei passi sulla ghiaia e soprattutto il suono della respirazione di chi sale con fatica su per i sentieri creano un potente effetto di sinestesia.

Scegliendo un bianco e nero terso e luminoso di giorno, denso e pastoso di notte, e giocando sull’alternanza fra piani larghi e primi piani, Ferraro crea un’elegia pacata e sensibile, intrisa di umanità: il confine fra un paese e l’altro diventa nel film il confine fra la vita e la morte, fra la contingenza dell’essere umano ed il suo – vano – anelito alla trascendenza. Nei dialoghi del film non c’è nessuna citazione tratta dall’opera di Benjamin, eppure i testi recitati dai protagonisti sono di una rara autenticità. Ne va del margine, della frangia della storia, di un limite estremo sul quale, di volta in volta ci troviamo, senza avere la consapevolezza di trovarci sul ciglio di un baratro.

Abbiamo incontrato Fabrizio Ferraro alla Viennale. Con la generosità e la finezza di pensiero che lo contraddistingue il regista ci ha parlato dei vari aspetti del suo lavoro sul film.

Come è nata l’idea di Les Unwanted de Europa?

L’ispirazione del film è partita dall’idea del paesaggio. Claudia Landi, un’architetta paesaggista che lavora con me da tempo, dopo un suo viaggio in Catalogna mi ha chiesto perché non facessi un film sugli ultimi paesaggi benjaminiani. La sua proposta mi ha intrigato ed é così che mi sono recato nella zona dei Pirenei da cui era passato Benjamin. Questo sopralluogo, effettuato a più riprese, si è protratto per quasi tre anni. Mentre lavoro su altri film faccio sempre dei sopralluoghi per scoprire cose nuove. Anche durante le riprese di Les Unwanted de Europa stavo facendo dei sopralluoghi per degli altri film; alcuni mi serviranno forse per il prossimo film, altri per dei film futuri che magari non realizzerò mai, chissà….

I luoghi sembrano essere molto importanti per te.

I luoghi sono fondamentali! Direi che per me il fatto di trovarli é forse quasi più importante delle riprese stesse. Devo avere una conoscenza dettagliata del luogo per essere poi pronto ad accogliere tutte le variazioni possibili che si mettono in atto senza rischiare di trasformarle in un puro caos. Per Les unwanted de Europa abbiamo esplorato una zona molto precisa dei Pirenei e abbiamo cercato di sondare come si muove la luce nella montagna. Ovviamente quello della montagna è un paesaggio molto vasto; per riuscire a capire quale punto di accordo, quale posizione assumere di fronte a una tale immensità ci vuole tempo, tanto tempo. Nel caso specifico il vero sentiero che avevano percorso i fuggitivi, da una parte e dall’altra della frontiera franco-spagnola nel 1940, ci è stato di grande aiuto. Per quanto riguarda invece le scene che ho girato a Parigi o quelle sulle notti bianche di Benjamin il contesto era, ovviamente, molto più circoscritto.

Dopo i luoghi sono venuti i testi? Come si è sviluppato il tuo progetto?

Di fatto tutti questi elementi si sono messi a punto simultaneamente; non c’è mai un prima e un dopo. Il punto di partenza per me non è mai un’idea separata, una tesi, qualcosa di totalmente celebrale da applicare, da mettere in pratica nel film.

La difficoltà più grande è invece quella di trovare un produttore capace di capire questo modo di procedere per tappe, in un processo di sviluppo continuo. Alla domanda classica: “Che film sarà?” la prima risposta che mi viene in mente è sempre: “Non lo so neanch’io!”. Non so dire a priori “che film sarà”, so in che direzione mi vorrei muovere, che cosa vorrei toccare, ma non so mai definire che tipo di forma avrà il film perché, come dicevo, non parto mai da delle formule aprioristiche. La composizione del film in Les Unwanted de Europa è stata dettata dalla presenza della montagna ma questo, finché non ne fai un’esperienza concreta, non lo sai mai in anticipo. Il fatto di avere incontrato un produttore di grande sensibilità ed esperienza come Lluís Miñarro per questo progetto è stata una vera fortuna.

Lluís Miñarro ti ha dunque offerto questo spazio di movimento e di libertà.

Si, è stato effettivamente così. Anche Rai Cinema, co-produttore del film, mi ha molto sostenuto, senza mettermi mai mettermi sotto pressione.

Presentando Les unwanted de Europa hai invitato il pubblico della Viennale a sentire, ad ascoltare le immagini attraverso il suono…

Ritengo sia fondamentale capire in che modo vediamo il mondo, in che modo appunto camminiamo nel mondo, come ci stiamo. Secondo me il cinema ha soltanto posto alcune questioni ma poi, per mille motivi, non le ha approfondite. Mentre si pensa che sia quasi finito, a mio avviso, il cinema si trova ancora agli albori, proprio perché ancora non siamo ancora riusciti a capire che tipo di esperienza umana e estetica si possa avere con le immagini. Bisognerebbe, per esempio, chiedersi se vediamo solo con gli occhi o se non vediamo piuttosto con tutto il nostro corpo. Nel sapere occidentale si è sempre dato più potere allo sguardo, agli occhi. Oggi però quest’accezione è saltata, proprio perché anche l’idea stessa di sguardo viene a meno, non c’è più. Paradossalmente il fatto di negare la supremazia assoluta dello sguardo, cioè una forma specifica con cui un soggetto, una persona, un autore si posa sul mondo, ci apre la possibilità di un’immersione più profonda in ciò che ci circonda e ci rende coscienti del fatto che si riesce a vedere anche con gli altri sensi.

Il suono della respirazione è particolarmente presente nel tuo film e c’immerge nella densità della tragedia rappresentata sullo schermo. Attraverso questa respirazione pesante, ansimante veniamo trasportati nel corpo di Walter Benjamin nella sua sofferenza, nella sua lotta, nel suo anelito di libertà, nella sua speranza di salvezza….

Nel film abbiamo cercato di rincorrere un’immagine che in è sempre assente; l’immagine di Walter Benjamin che attraversa i Pirenei è, di fatto, un’immagine assente. Quella di Walter Benjamin é dunque presenza ricostruita. Con il suo respiro Euplemio Macrì, l’attore che impersona Benjamin, apre un’altra processualità nell’immagine. Il respiro é l’unica cosa che tiene in vita e in attività l’essere umano. Nella costruzione del film abbiamo continuato a cercare questo tipo di cose, cioè degli elementi sensoriali piuttosto che degli elementi meramente discorsivi.

Quando è tutto ricercato, costruito, ridotto ad un discorso, ad un qualcosa di dettagliato, rischia di diventare un corpo morto, cioè un corpo già definito, chiuso ed impermeabile dove è impossibile passare e intraprendere delle trasformazioni. Penso che un’opera debba restare il più aperta possibile, debba cioè metterci in condizione di essere completata lavorando con il corpo e con l’esperienza sensoriale di chi guarda. In questo magma aperto e caotico possiamo, forse, incontrare di nuovo anche il pensiero di Walter Benjamin, la sua fatica, la sua tensione, il suo modo di porsi sul bordo del proprio tempo e possiamo anche sentire un po’ il mare e il vento dei Pirenei…..

Il tuo film è finemente cesellato; si compone di diversi tasselli e cambiamenti spazio-temporali che si compenetrano in modo molto organico. Come hai lavorato al montaggio?

Il montaggio per me è fondamentale; é un lavoro in cui bisogna riuscire a sentire la giusta densità delle cose anche in rapporto al tempo, alla durata. Affinché l’insieme del film funzioni ogni elemento deve raggiungere un suo proprio stato di densità all’interno dell’opera. Nel caso di Les unwanted de Europa il mio scopo era quello di riuscire a tirare fuori dal paesaggio tutte le stratificazioni che poteva dare. Proprio per questo dicevo che non c’è mai una formula; l’idea della lunghezza e della durata non possono esistere a priori.

Una scena, un’inquadratura può durare dai 5 secondi ai 20 minuti, tutto dipende da quanto bisogno ha un’immagine per riuscire ad avere la densità giusta in rapporto alle altre. A volte questo processo sembra spiazzante perché ci possono essere dei cambiamenti improvvisi ma, di fatto, tutto si svolge in modo organico all’interno di un complesso di cose che l’opera stessa, vista nel suo insieme, richiede.

La tua cinepresa da un lato abbraccia l’ampiezza del paesaggio e dall’altro si focalizza sulla persona creando una specie di iato, di tensione fra momenti di avvicinamento e momenti di allontanamento.

Infatti questo è l’unico modo per non cadere in quella trappola feroce di rinchiudere tutto, come se tutto nascesse e finisse nella figura umana. Di fatto, la figura umana non termina dove termina l’apparente contorno del corpo ma continua, muove altre cose. Per me era importante riuscire a materializzare questo tipo di sensazioni e a farne esperienza. C’era dunque bisogno di creare la giusta tensione, la giusta distanza con le cose del mondo quindi con la montagna e col paesaggio. Di fronte alla grandezza, alla potenza di questi elementi naturali l’uomo corre il rischio di sentirsi annichilito eppure questo è anche il luogo per eccellenza in cui può cercare un accordo fra il sé e il mondo e trovare il giusto equilibrio, anche se si tratta di un equilibrio di per sé tragico.

Benjamin si confronta alla montagna per passare il confine, per portare avanti la propria vita, questo è il punto di volta in cui il senso stesso dell’essere umano si gioca le sue carte. L’alternativa è la distruzione totale.

 

 

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