Raramente si è visto filmare una rivoluzione in fieri con una tale empatia tra chi filma e le persone che vengono filmate. Come sei arrivato sulla piazza, come sei stato accettato, come sei giunto a questo risultato?
Ho fatto, nel vero senso del termine, di necessità virtù: in quel periodo ero a Parigi e stavo finendo di montare Palazzo delle Aquile con Penelope Bortoluzzi. Quando é iniziata la rivoluzione in Egitto avevo superato, in un certo senso, il lutto di non essere stato presente a quella successa in Tunisia. La Tunisia è un paese in cui ho lavorato e che mi è caro, ma non come l’Egitto in cui sono stato quasi una volta all’anno negli ultimi vent’anni come egittologo. Durante questo tempo avevo già girato varie cose, ma avevo sempre finito per buttare via tutto, non riuscivo a raccontare nessuna storia inerente a questo posto estremamente affascinante perché ogni elemento narrativo sembrava come compresso dentro gli schemi del regime, tutte le espressioni della vita viravano per forza al conformismo. Quando è iniziata la rivoluzione ho capito che se non fossi andato subito in Egitto per vederla e viverla da vicino il mio rapporto con il paese si sarebbe spezzato, probabilmente, per sempre. Il 29 gennaio, dopo aver passato delle ore davanti alla cronaca on-line di al-Jazeera, ho finalmente deciso di partire per vedere da vicino chi fossero le migliaia di persone che, per la prima volta in 30 anni, sfidavano lo stato di emergenza ed i divieti del regime.
Come hai fatto per prendere contatto con le persone che hai filmato e guadagnarti la loro fiducia? Come hai fatto in seguito per seguire questo gruppo in particolare?
Ho conosciuto questi ragazzi subito al mio arrivo e non li ho più lasciati, sono stati molto pazienti con me. Hanno sentito subito che c’era una complicità, non posso dire che io fossi uno di loro, però sentivano che ero al livello del suolo, come loro: dormivo insieme a loro, stavo con loro, vivevo con loro e tutto ciò mi ha aiutato. Ad ogni modo avevano una grande voglia di venire mostrati così come realmente erano ed una grande paura di essere mal rappresentati, sopratutto da parte dei mezzi d’informazione più strutturati. Io, al contrario, ho passato tantissime ore a parlare con loro con la telecamera spenta, probabilmente hanno capito che la mia era una curiosità genuina.
La potenza visiva e la luce che abbiamo visto durante la proiezione di Tahrir sono stupefacenti tanto più se si pensa che queste immagini e questi suoni sono stati realizzati da un solo cineasta: Stefano Savona.
In effetti quando sono partito ho preso con me il materiale più leggero che avevo cioè la macchina fotografica ed un piccolo registratore digitale; non volevo rischiare di arrivare laggiù con una telecamera che mi avrebbero probabilmente sequestrato subito o con un microfono professionale che avrebbe certamente subito la stessa sorte. Le televisioni sbarcavano di continuo in piazza Tahrir con delle troupe di 10-20 persone mentre io sono arrivato lì da solo con la mia piccola fotocamera e la gente ha capito subito che avevo bisogno d’aiuto. Questo tipo di materiale mi ha dato l’opportunità di fare il film così com’é perché mi ha permesso di venire ‘adottato’ dagli abitanti della piazza. Detto ciò però tutti i problemi inerenti all’uso una macchina fotografica per fare del video erano ben presenti e non erano certamente risolti. Anche in questo caso ho dovuto fare di necessità virtù: all’inizio ho cercato di attenermi a quello che sapevo fare, ben presto però, ho capito che se avessi continuato così non sarei riuscito a portare a casa niente di buono o, diciamo, niente che fosse al livello di quanto stavo vivendo sul posto. In quel momento ho preso tutti i rischi possibili sia da un punto di vista tecnico che espressivo e fisico e mi sono lasciato portare dalla forza degli eventi; é stato attraverso questa strana forma d’inerzia che è venuto fuori il film.
Il montaggio del film è estremamente musicale, sembra proprio una melodia orientale in cui c’è un tema portante dove ogni tanto si isola qualche voce solista e poi il tema generale riprende con più forza, con più vigore, con più famigliarità…
Durante il montaggio abbiamo effettivamente pensato all’energia musicale di questa rivoluzione; tutti gli slogan improvvisati che venivano scanditi avevano qualcosa di molto musicale per non parlare poi delle persone che suonavano o che cantavano in piazza. In questo senso la costruzione musicale del film faceva parte quasi dell’argomento stesso. La forza d’improvvisazione che le persone hanno di solito in Egitto in occasione dei matrimoni o per altri eventi della vita privata ha invaso, durante la rivoluzione, lo spazio pubblico. Abbiamo voluto che questo elemento trascinasse tutto il film. Lo spettacolo della rivoluzione era proprio quest’energia debordante che veniva fuori dalle immagini che ero riuscito a filmare dando atto di una voglia sfrenata di parlare, di esplodere dopo trent’anni di silenzio.
Vedendo Tahrir non ho potuto fare a meno di pensare al saggio di Canetti Massa e Potere. Canetti parla dei meccanismi di massa che rendono possibile la costruzione di un sistema totalitaristico, in Piazza Tahrir al contrario la massa mette in atto una ‘decostruzione’ del sistema….
Al di là della mia passione per l’Egitto da anni sognavo di girare quanto ho avuto occasione di girare lì, cioè il momento in cui degli individui scoprono di essere una massa critica, capiscono che tutti insieme sono qualcosa di più che dei singoli aggiunti l’uno all’altro e sviluppano un entusiasmo ed uno stato d’animo quasi indefinibile per chi non l’ha mai provato. Io personalmente non l’avevo mai provato prima e non mi sarei mai immaginato vivere quest’esperienza proprio in Egitto in un paese che mi sembrava al penultimo posto, prima dell’Italia, come il luogo in cui tutto ciò sarebbe potuto succedere. In questo tipo di situazioni il cinema documentario è la cosa più utile per raccontare l’accadere.
Vedendo il film si ha la sensazione è che la gente fosse abituata ad avere intorno a sè delle telecamere. Qual è stata la reazione delle persone mentre le riprendevi?
Le persone in Piazza avevano ben altro a cui pensare che alla mia telecamera; non penso che si preoccupassero della mia presenza più di tanto. D’altra parte queste persone si stavano conoscendo proprio in quel momento per cui, in qualche modo, l’atto della messa in scena dell’uno rispetto all’altro ha preso naturalmente il posto della messa in scena di fronte alla camera. La fortuna ed il privilegio di potere filmare in uno spazio pubblico di questo genere è proprio questo. Chiunque in quella piazza si trovava al centro di un enorme palcoscenico relazionale. In questo tipo di situazione siamo all’origine del concetto stesso di spettacolo; chi si rivolgeva alle telecamere era come se si rivolgesse al mondo intero, c’era un continuum assoluto fra tutto questo.
Qual’è stata la presenza ed il ruolo delle troupe televisive in Piazza?
Le televisioni erano presenti in maniera capillare, io ne ho viste molte; andavano, venivano, entravano ed uscivano, ovviamente in alcuni momenti non c&
rsquo;erano. Io invece sono stato sempre sul posto, questo mi ha dato l’opportunità di filmare dei momenti unici come quello della breve apparizione in Piazza di Wael Ghonim – diventato, attraverso la sua pagina web, uno dei simboli della rivoluzione – subito dopo la sua liberazione. Sono stato il solo a potere filmare da vicino quest’ evento che non era stato previsto. Le troupe televisive, per loro natura, vanno a caccia di quello di cui hanno bisogno e se lo riportano a casa mentre il documentario ha il privilegio di potere seguire nel tempo il corso delle cose.
Si è molto parlato dell’importanza di Facebook e di internet come strumenti di convocazione. nel tuo documentario al contrario si vedono soprattutto dei telefonini. Tu che percezione hai avuto in loco, come avveniva lo scambio d’informazioni?
L’uso di Facebook era molto limitato in Piazza perché nessuno disponeva di Smartphone, l’unico mezzo di comunicazione veramente in uso fra i manifestanti erano i telefonini. Sicuramente il ruolo di Facebook è stato fondamentale a monte, cioè nel permettere alle persone di convocarsi e quindi di essere poi tantissime in Piazza. La rivoluzione è stata qualcosa di molto più concreto; gli individui che si erano dapprima contattati online si sono in seguito conosciuti di persona per strada, sotto condizioni completamente eccezionali. Nel momento in cui si viene attaccati da dei poliziotti o da gente armata di pietre Facebook diventa un mero ricordo, da quel momento in poi le persone condividono lo spazio in maniera assolutamente ‘carnale’. Si dormiva tutti nello stesso posto, ci si faceva calore l’uno con l’altro, ci si dava da mangiare, si tratta una situazione molto più materiale, fisica, mentre quando si parla di rivoluzione attraverso Facebook si ha l’impressione di qualcosa di più astratto, asettico.
Come faceva la gente a coordinasi, senza un leader, per andare sempre nella stessa direzione, senza che magari qualcuno potesse agitare le cose e quindi potesse scomporre tutto il movimento?
Questo, a dire il vero, è un qualcosa che non so; per uno strano fenomeno di sinergia funzionava così, non c’era nessuno che dicesse agli altri cosa bisognava fare. A questo proposito posso raccontarti l’episodio molto indicativo del ragazzo che mi ha portato in prima linea. Questo ragazzo sembrava un leader assoluto dettava ordini a destra e a sinistra, ad un certo punto mi ha messo in testa un cartello stradale piegato per non farmi prendere pietrate e mi ha detto: “Vieni, ti ci porto io in prima linea!” L’ho seguito dicendomi che sicuramente lui era il capo, mi ha fatto fare tutto questo giro, poi ad un certo punto siamo tornati indietro. Evidentemente eravamo tutti e due stanchissimi perché era già un giorno e mezzo che c’era la battaglia vicino al ponte, ci siamo seduti un attimo e lui mi ha detto: “Io non ho mai fatto una cosa del genere in vita mia! Ieri ero a casa, ho visto in televisione cosa hanno fatto al vecchio, ho preso e sono venuto in Piazza. Se mia madre scopre che sono qui mi ammazza. Io faccio il professore di scuola media, i miei allievi mi prendono in giro perché non riesco mai ad imporre la disciplina in classe….” “Io -gli ho risposto- ho invece avuto fiducia in te quando mi hai detto di seguirti in prima linea, nonostante lì si stessero tirando delle molotov!” Poi ci siamo salutati e non ci siamo più rivisti, però lui mi ha lasciato le sue coordinate di Facebook. Due settimane fa ci siamo messi a chattare e lui mi ha confidato che quello era stato l’unico giorno in cui era sceso in Piazza, poi non era neanche più uscito di casa…
In Tahrir hai filmato il momento rivoluzionario eppure il film non termina con l’entusiasmo della vittoria ma con un dubbio, un’ombra che s’insinua proprio nell’ultima inquadratura…
Il finale del film stabilisce in qualche modo un ponte con il futuro, ma anche con il presente. Un finale in cui io avessi lasciato da parte questo ‘giorno dopo’ sarebbe stato più pessimista; con questo finale si capisce come le persone nonostante siano molto naïv stanno scoprendo, giorno dopo giorno, come fare politica, ma allo stesso tempo, sin dal primo momento direi, sono assolutamente coscienti del fatto che qualcuno possa rubare loro quanto hanno raggiunto. La coscienza di questo pericolo, presente peraltro durante tutti i giorni precedenti, è restata ben tangibile anche nell’entusiasmo assoluto della vittoria e della cacciata di Mubarak. Nel momento del festeggiamento c’era chi diceva: ‘No! Non andiamo via, dobbiamo avere prima delle garanzie!” Cioè la garanzia che, qualsiasi cosa succeda, non si possa più tornare indietro e perdere quanto si é acquisito. Detto in altre parole: le persone in piazza erano consapevoli del fatto che non si può delegare il proprio destino ad altri.
Ritorno sul discorso delle troupe televisive perché non riesco ad immaginarmi una distanza maggiore fra quello che fai tu e quello che fanno invece le televisioni della società dello spettacolo…
Sì in effetti é così anche se è difficile parlare male della televisione in generale che spesso finanzia i miei lavori e ‘contro’ la quale chiaramente questi lavori sono fatti… mi riferisco alla televisione intesa come fruizione di immagini o di storie a puro fine di consumo. Mettere dei fatti insieme, connetterli in un tutto dotato di senso, è quello che fa uno storico, ma anche ciò che fa un drammaturgo, si tratta dello stesso procedimento. La televisione fa tutt’altro, ma anche la stampa fa tutt’altro; non mettono dei fatti insieme nello scopo di creare una narrazione. Quando l’immagine, l’attualità, entra a far parte di questo metabolismo viene spesso digerita ed espulsa nel corso di ventiquattro ore, questo impedisce materialmente che la realtà si faccia storia. Il lavoro che fa un narratore o uno storico al contrario è un lavoro di costruzione del ragionamento e del racconto, questo è il tipo di lavoro che faccio io, per creare proprio dei momenti di pausa in questo quotidiano inarrestabile metabolismo delle immagini.
Cosa pensi di fare di questo film, pensi di distribuirlo in sala? C’è stata già una versione molto più breve, diversa che è andata in onda su Rai 3.
Noi speriamo di potere distribuire il film in sala perché comunque la differenza la fa sia la dimensione proiettiva, sia il fatto che il suono ha un valore, una portata diversa. Ci auguriamo di riuscirci, siamo fiduciosi ma questo, purtroppo non vuol dire più di tanto.
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Nel frattempo Tahrir ha trovato un distributore in Francia ed uscirà in sala agli inizi dell’anno. Ci auguriamo vivamente che il film venga distribuito prossimamente anche in Italia.
Conversazione molto interessante e vitale, grazie