Riprendiamo il discorso col regista algerino rivelazione lo scorso anno con Rome better than you e che alla Mostra veneziana 2008 ha presentato Gabbla. In questo suo secondo lungometraggio tornano le tematiche di fondo che gli stanno a cuore: il viaggio come anelito verso un mondo migliore e come ricerca di sé.
Nel tuo film c’è una tensione verso linguaggi “altri” da quelli del cinema narrativo tradizionale, non solo nel trattamento dell’immagine ma anche del suono: un lunga carrellata filmata da una locomotiva, per esempio, si svolge in un silenzio quasi assoluto.
Oggi nella maggior parte dei film del cinema commerciale il livello della partizione sonora è già in partenza troppo elevato, quindi per far sentire qualcosa bisogna aumentare ancora di più il suono. In Gabbla abbiamo puntato sull’effetto opposto: è proprio a partire da questa desertificazione, da questo ritiro del suono che può sorgere un evento. Nel caso del treno in marcia, il rumore assordante della locomotiva avrebbe cancellato tante piccole cose che accadono a destra e a sinistra: un bimbo che si mette a correre, una macchina che passa, un carretto che arriva. Sono queste deviazioni rispetto a quanto siamo abituati a percepire che fanno sì che in fin dei conti le cose si possano percepire molto meglio.
Nel film sono presenti alcuni inserti documentari che a prima vista possono sembrare estranei alla struttura narrativa generale, o per lo meno a quella principale: mi riferisco alle discussioni politiche fra giovani intellettuali. Queste immagini restano come delle spiagge isolate, perse in un insieme troppo vasto, separate dal resto.
Questo aspetto del film riflette una situazione reale. Effettivamente in Algeria c’è una minoranza, di cui anch’io faccio parte, che non riesce ancora a fare sentire il suo discorso: sono tutti coloro che credono in una politica basata sulla discussione e sullo scambio di idee, che tentano di pensare una democrazia. Sono convinto che l’idea stessa di democrazia non sia stata ancora veramente accettata nel mio paese: questi gruppi continuano dunque a vivere in una certa clandestinità. Non sono realmente costretti a nascondersi ma non hanno d’altra parte neanche il diritto di uscire per strada e di manifedtare, né la possibilità di ricorrere alla stampa quotidiana per propagandare i loro punti di vista. In realtà chi invece si fa vedere e sentire sono piuttosto i giovani sovversivi. In Gabbla ho voluto dare spazio alla parola mettendo a confronto in maniera frontale e senza mediazioni differenti tipi di discorso: accanto alle discussioni dei militanti c’è per esempio la lunga sequenza di un poeta-bardo che declama le sue idee cantando. Avevo filmato anche delle testimonianze di esiliati, di rifugiati politici e di ribelli che poi ho finito per escludere dal montaggio. Parlare significa, per tutte queste persone, inventarsi, fare esistere degli altri “possibili” anche se ciò accade ancora in spazi chiusi e limitati.
Nei tuoi film mostri la violenza che impregna la realtà del paese senza mai filmarla in maniera diretta, perché?
Fare cinema per me significa cercare di trovare la buona distanza rispetto ad un evento: non voglio filmare la violenza in atto, ma i suoi effetti. Ciò che mi interessa è il dopo: le tracce lasciate in uno spazio, il suono delle mine che esplodono in lontananza e che non vedremo mai, le case abbandonate, la paura che resta negli sguardi della gente, la loro diffidenza reciproca. In Algeria c’è un discorso ufficiale secondo cui la guerra sarebbe finta ed è anche vero che non siamo più in quei tempi di violenza estrema in cui si contavano decine di morti ogni giorno, ma ci sono ancora molti morti e politicamente la questione non è ancora completamente risolta. La violenza è costantemente latente.
C’è una serie di film che tratta il soggetto del “ritorno” in Algeria mentre tu metti in scena sempre un desiderio di fuga dal paese.
Nei miei film c’è soprattutto il rifiuto di un’identità mentre nei film di cui mi parli la questione dell’identità è centrale: chi sono? Da dove vengo? La gente cerca delle strutture, vuole darsi dei contorni. Già nel mio primo film il protagonista Kamel poteva cambiare identità e farsi passare per svizzero, francese o italiano. Il caso di Malek è ancora più radicale, lui non solo non cerca di definire la sua identità ma aspira a scomparire a dissolversi. Malek rifiuta l’identificazione e la morale dello stato civile, si tiene al margine delle norme ed io sono, in fondo, un po’ come lui …
Qual è la situazione del cinema in Algeria?
La situazione è oggi leggermente migliore di quanto non lo fosse qualche anno fa, ma resta pur sempre catastrofica. Non ci sono sale di cinema, gli aiuti per girare dei film sono estremamente limitati e quando i film sono fatti non sono diffusi dalla televisione. Per quanto riguarda la formazione non esistono ancora delle scuole di cinema, la gente impara qua e là come può. Io ho frequentato l’università a Parigi ed è così, guardando dei film, che mi sono formato.
In questa prospettiva cosa significa produrre dei film in Algeria?
Significa decidere di farli con pochi soldi, senza aspettare di avere un budget cosiddetto “ragionevole” per incominciare a girare. Significa accettare i condizionamenti di questa indigenza: filmare per esempio in digitale aspettando di poter fare un giorno il passaggio a 35 millimetri, lavorare esclusivamente con delle èquipes algerine, domandare ad ognuno di fare degli sforzi, ma significa soprattutto avere una voglia enorme di fare il film! Gabbla è stato realizzato con uno spirito militante: per girarlo ci siamo appoggiati a una rete di amici e di attivisti politici sparsi su un tragitto di più di 1500 Km: è anche grazie all’aiuto di tutti questi compagni che siamo riusciti nella nostra avventura.
Qual è il messaggio di fondo che vuoi trasmettere con Gabbla?
Nella società algerina c’è tuttora molto sgomento, molta sfiducia: il discorso degli estremisti islamici è un discorso di morte che pesa sulla realtà del paese e sulle coscienze. La scena dove si vede un uomo impiccato ad un albero vuole simbolizzare una parte dei nostri fallimenti, delle nostre rinunce. Accanto a questo tipo di atteggiamento però ci sono anche delle persone che parlano, discutono, tentano di comprendere quanto ci succede e che vogliono formulare delle proposte alternative alla disperazione e alla rinuncia. C’è un vera voglia di vivere nel mio film, l’idea di un progetto di vita dionisiaco che si oppone ad un discorso di morte. Per questo, verso la fine di Gabbla, ho inserito una sequenza in cui si vedono du
e giovani attivisti, che avevo filmato prima sempre in luoghi chiusi, camminare e discutere nella natura sconfinata del deserto, liberi di filosofare e di progettare un mondo nuovo. Se c’è un messaggio che voglio trasmettere è proprio questo: viva la vita!