Una finestra sul Mediterraneo e il Maghreb. E’ in corso fino a domenica all’Accademia di Francia a Roma – Villa Medici, il festival Cinemondo, alla terza edizione, dedicato quest’anno all’Algeria, Marocco e Tunisia.
Uno speciale tributo sarà dato al regista algerino Tariq Teguia, ospite d’onore, che a Villa Medici presenterà due suoi lungometraggi: Roma wa la n’touma (Roma piuttosto che voi, 2006) che sarà proiettato venerdì 22 (ore 21.00) e Gabbla (Nelle terre, 2008), sabato 23 (ore 21.00).
Riproponiamo l’intervista che facemmo a Venezia in occasione della presentazione di Gabbla, forte della cui riuscita ha potuto progettare e realizzare Zanj Revolution (Thwara Zanj), il suo ultimo possente lavoro, proiettato in anteprima mondiale in concorso al Festival di Roma 2013, nella sezione Cinemaxxi.
Ho incontrato il giovane-quarantenne regista algerino Tariq Teguia per la prima volta lo scorso novembre durante la Viennale dove avevo il compito di presentare Rome better than you. Non avevo mai sentito parlare di lui, eppure sono rimasta colpita dal suo film che per me resta uno dei più importanti dello scorso anno; rivelazione di un artista di talento, rigoroso, tenace e senza mezze misure.
Tariq Teguia, che ha studiato filosofia e ha scritto una tesi di dottorato a Parigi sull’estetica di Robert Frank, è uno che sa il fatto suo: oratore brillante e polemico, le discussioni pubbliche con lui non rischiano mai di essere noiose eppure, dietro il suo fare un po’ scontroso e distante, si nasconde una persona di grande sensibilità.
Di fatto aveva esordito due anni fa a Venezia nella sezione Orizzonti proprio con Rome better than you, un film degno di nota per l’originalità e la forza della sua scrittura cinematografica, capace di esprimere un contenuto politico attraverso un linguaggio poetico scarno ed elegante. Road movie politico ed esistenziale, Rome narra le vicende di Kamel e Zina alla ricerca di passaporti falsi per poter lasciare il paese. Per arrivare a montare il film, Teguia ha dovuto lottare fra difficoltà di ogni genere per ben otto anni. Il film è stato accolto in maniera entusiasta dalla critica specializzata in Francia e ha riscosso un buon successo di pubblico. Uscito in marzo in un circuito di sale d’Arte ed essai, il film è tuttora in programmazione a Parigi. Forte di questa riuscita, ha potuto progettare e realizzare Gabbla, suo secondo lungometraggio, in tempi assai brevi. Ha iniziato a girare il film dopo Natale ed ha finito di montarlo solo poco prima della proiezione ufficiale alla Mostra del cinema.
E’ infatti a Venezia che Tariq ritorna dopo due anni con questo suo secondo film autoprodotto, arduo e complesso nel suo linguaggio. I programmatori di Venezia 65 hanno mostrato di credere nel talento e nelle capacità del regista proponendoci un’opera che esce dai sentieri battuti del cinema narrativo convenzionale. L’universo di Gabbla è caratterizzato da un’estrema dilatazione dei tempi d’azione, dalla rarefazione dell’elemento discorsivo, dalla struttura ellittica della trama e da un montaggio che dissocia spesso il suono e l’immagine generando un’atmosfera onirica. Gabbla non è un film di facile accesso, ma ha saputo, a giusto merito, convincere i membri della giuria FIPRESCI che gli hanno attribuito il primo premio.
Attraverso un viaggio sensoriale di rara ed enigmatica bellezza, Teguia ci propone una meditazione sul destino di un uomo, Malek, e su quello di un paese, l’Algeria. In Gabbla Tariq riprende le tematiche di fondo che gli stanno a cuore: il viaggio come anelito verso un mondo migliore e come ricerca di sé, il tema della coppia, l’impegno e la riflessione politica sull’Algeria attraverso la storia paradigmatica di un uomo – Malek, un topografo quarantenne scontroso e solitario che è mandato in missione nell’entroterra algerino. Gabbla è un occasione per scandagliare la realtà algerina in tutta la sua complessità per mezzo di un sopralluogo nelle parti più remote del paese che portano in sé ancora visibili i segni e la sequele dei lunghi anni di terrorismo islamico. Il destino personale di Malek si incrocia con il destino “geo-politico” di una clandestina africana in rotta verso l’Europa: ne nasce un’improbabile alleanza di due esseri verso l’immensità del deserto e verso la libertà.
Ho rivisto Tariq Teguia quest’anno a Venezia sulla terrazza dell’Excelsior sotto un sole che batteva a picco: dopo una serie di interviste alquanto stressanti, Tariq è stato lieto di vedere un volto famigliare e di potere parlare a ruota libera del suo film.
In Gabbla sembri riprendere delle tematiche che avevi già trattato in Rome better than you: l’anelito verso un “altrove”, una riflessione sulla realtà politica del paese. Qual è per te il rapporto fra i due film?
Gabbla è nato in primo luogo come una sorta di continuazione e di evoluzione del mio primo film: mentre Rome better than you si svolgeva nello spazio chiuso e labirintico di un quartiere della periferia di Algeri, in Gabbla ho cercato di rappresentare un territorio complesso ed eterogeneo. All’inizio del film vediamo un’Algeria urbana, quella della capitale, in seguito l’Algeria dell’entroterra, del lontano, del quasi abbandonato, alla fine il deserto. Questi paesaggi corrispondono da un lato ad uno spazio esistenziale, all’interiorità di Malek ed esprimono una dimensione contemplativa e meditativa, dall’altro sono teatro di una tensione geo-politica. Il film è il risultato della coabitazione o meglio della giustapposizione di due dimensioni: una dimensione meditativa, di ricerca interiore e una dimensione politica, di contestazione.
In che modo hai risolto questa duplice tensione nel tuo film?
Ho costruito il mio film come una specie di patchwork alquanto frammentario in cui i vari elementi sono tenuti insieme da delle linee di fuga: quella di Malek in primo luogo – fuga interiore, tragitto meditativo – e poi quella di una giovane donna proveniente dall’Africa sub-sahariana che vuole raggiungere l’Europa. Incontrandosi, questi due personaggi uniranno le loro linee di fuga e le loro linee di vita operando una sorta di mediazione fra i due momenti costitutivi del film. Ma nel film ci sono ancora delle altre linee, degli altri percorsi: quelli tracciati dalla parola degli attivisti politici, da un giovane rivoluzionario, o dal ragazzo che abbandona il paese su un’imbarcazione di fortuna. In questo senso Gabbla vuole essere una mappa di linee in movimento.
La figura della coppia è una costante nei tuoi film: queste coppie si formano in maniera quasi fortuita durante il tragitto iniziato dall’uomo ma, alla fine, chi sembra veramente farcela è sempre la donna. Cosa motiva questa tua scelta?
In effetti sia in Rome che in Gabbla nella parte finale del film è la donna che prende in mano la situazione mentre l’uomo si trova in uno stato nel quale non sapremo mai se ce la f
arà a cavarsela. Karim è gravemente ferito da uno sparo, Malek è stato punto da uno scorpione, per loro il cammino si interrompe. In Gabbla uno dei giovani attivisti dichiara di essere femminista; il mio discorso vuole essere femminista senza però ridurre la figura della donna a una semplice caricatura. In un certo momento del film la ragazza dice di volere abbandonare il viaggio, di volere tornare al suo paese. Anche la donna è dunque attraversata dai dubbi, ha le sue esitazioni, i suoi momenti di sconforto e di debolezza ma sembra essere in grado, più che l’uomo, di continuare il cammino.
Ci sono dei registi che ti hanno ispirato o che hanno influenzato in modo particolare la tua maniera di fare cinema?
Onestamente non saprei cosa risponderti: a proposito del mio primo film i giornalisti mi hanno associato almeno una quarantina di nomi… per quanto riguarda Gabbla, per farti solo un esempio, si è parlato di Antonioni: la tematica del deserto, la ricerca esistenziale, la lunghezza dei piani. In tutta sincerità devo ammettere che se ci sono degli elementi di questo regista o di altri nel mio lavoro, ciò non accade in modo cosciente, si tratta piuttosto di reminiscenze, di sedimentazioni. Utilizzo tutto ciò che mi passa per le mani e che mi interessa secondo delle associazioni che si vengono a creare spontaneamente. Lo stesso succede anche con la musica nei miei film: cosa ci viene a fare il pezzo di un flautista jazz nel bel mezzo del deserto algerino? A prima vista niente però per me l’associazione esiste ed è molto forte: il flauto è lo stesso strumento suonato da un gruppo di musicisti locali nel film durante una festa di paese.
Gabbla è caratterizzato da una forte componente visuale. Puoi parlarci di questo aspetto del tuo lavoro?
Per me la problematica dello sguardo è fondamentale: che cosa si capta ogni volta con un’inquadratura e che cosa si esclude? Il mio vocabolario è in primo luogo quello delle immagini: l’inquadratura, ma anche i raccordi, le cesure, la scelta del ritmo. Ho scritto la sceneggiatura di Gabbla con mio fratello Yacine ma per me questa attività non è sostanziale da un punto di vista creativo: la sceneggiatura serve soprattutto per calcolare i costi del film, trovare dei finanziamenti e dare un testo da recitare agli attori. Il film per me nasce essenzialmente nel momento di girare: il direttore della fotografia ed io ci troviamo a sperimentare, ad improvvisare, ad inventare di volta in volta una scena senza ricorrere alla riproduzione di un metodo, di una gestualità o di un know how preesistente. La domanda che mi pongo è sempre la stessa: dove devo piazzare la cinepresa per arrivare a far sentire le forze che operano in uno spazio, che attraversano dei corpi?
In Gabbla dai una grandissima importanza ai paesaggi, alla distesa dello spazio che filmi utilizzando dei campi molto lunghi.
Il mio film precedente si svolgeva in una sorta di labirinto: le strade strette e tortuose di un quartiere di Algeri dove i personaggi rischiavano di restare intrappolati per sempre. In questo tipo di spazio i piani non potevano che essere ravvicinati. In Gabbla invece l’individuo si deve confrontare con l’immensità della natura rappresentata dall’entroterra e dal deserto. Malek è come perduto, annichilito nello spazio che lo circonda a perdita d’occhio. L’utilizzazione di piani d’insieme riflette questa sensazione. Nella scena finale del film un sorriso sereno e saggio come quello del Buddah illumina il volto di Malek, ma per poter arrivare lì Malek ha dovuto prima essere inghiottito, assorbito dallo spazio, dal mondo circostante. (continua)