[**½] Chiariamo di corsa che non siamo di fronte ad uno dei migliori film di Costantin Costa Gavras. Se solo per un attimo paragoniamo questo Verso L’eden al recente e straordinario Il cacciatore di teste, sentiamo due emozioni completamente diverse e distanti percorrerci il corpo e la memoria. Questo cosa significa? Vuol dire che Verso L’eden è un brutto film? Non esattamente, o non del tutto, almeno. Diciamo che è un film interessante, una pellicola che con qualche accortezza in più, e forse anche con un protagonista meglio preparato, avrebbe potuto riscuotere più consensi e farsi portatore di maggiore chiarezza.
Il tema dominante dell’opera è l’immigrazione povera nel “paradiso” occidentale, giocato sulle corde dell’apologo drammatico, in una specie di realismo magico e doloroso. Riccardo Scamarcio è un personaggio quasi muto, un Ciaula che scopre la luce (rigorosamente artificiale) con gli atteggiamenti di una creatura pasoliniana, se non altro per le espressioni poco professionistiche e quasi improvvisate con le quali osserva la fauna della sua odissea on the occidental road. Lo incontriamo dopo un naufragio clandestino in un villaggio turistico internazionale pieno di cibo prelibato e di occidentali nevrotici alla deriva, non meno drammatica, guardandoli bene, di quella fisica del nostro antieroe per caso. Scamarcio se la cava mimando il cinema muto dei grandi comici, con un silenzio impaurito che si infila prima nei panni di un facchino e poi nelle bocche e nelle lingue di un capovillaggio gay e di una matura donna occidentale vogliosa di assaggiare una pelle giovane ed un fondo schiena maschile di rara bellezza.
Elias, questo il nome del protagonista, inizia ad essere il reagente attraverso cui il regista racconta la chimica alterata del mondo nostrum, tra consueti egoismi e sempre più ossessivi agi materiali. Il realismo aggredisce il film già quando i padroni del villaggio scoprono le marachelle di questo immigrato clandestino e preferiscono liberarsene, altrettanto clandestinamente, anziché denunciarlo alla polizia. Il giovane inizia così un lento e rocambolesco giro per l’Europa, con gli occhi della purezza che gli hanno fatto credere a quello che gli ha detto un mago, una sera giù al villaggio. Quando, in gioco ad un’altra fortunosa peripezia, si era ritrovato ad essere l’assistente di un grande giocoliere francese che il villaggio aveva ospitato per rendere ancora più eccitante il soggiorno dei suoi ospiti stressati, in crisi, in cerca di relax e nuovi incontri. E cioè, “Io sono un grande prestigiatore parigino, e se una volta passi in città, vienimi a trovare: lavorerai con me”. Bastano queste poche parole, ed un biglietto da visita sbiadito e stropicciato, per alimentare l’ingenua speranza di questo fanciullo fiabesco contemporaneo. Ecco le Alpi, allora, in compagnia di una coppia impazzita e di due sghembi e strambi camionisti.
Elias è un oggetto umano che non riesce nemmeno a cogliere il fallimento di un progetto socio esistenziale che vive soltanto come mito. Rimarrà sempre immobile davanti alle pubblicità, ai diversi caratteri in cui si imbatte, in una Parigi che ricorda quella di un altro film, il bellissimo La leggenda del santo Bevitore diretto da Ermanno Olmi dal romanzo di Joseph Roth. Anche quella era una favola, anche quella aveva Parigi come sfondo, ma le atmosfere erano più precise, i personaggi meglio strutturati, le interpretazioni più convincenti. Di Verso L’eden rimane la ricerca di un tono estraneo alla quasi totalità dei film sull’immigrazione, e la decisione con cui il grande regista greco sfrutta questo attualissimo argomento per parlarci delle malattie della cultura ospitante. In questo senso il film si rialaccia bene al precedente recente discorso dell’autore ne Il cacciatore di teste. Lì l’argomento era il lavoro, qui, soprattutto, la cultura occidentale del presente. Un film delicato, questo Verso L’eden, valido nella fotografia e nei paesaggi, fresco nei toni e fortunato nel pennellare una serie di figure di passaggio. Vederlo non disturba, non irrita, anche se si esce dalla sola convinti di non infilarlo né nei film della vita, né in quelli dell’anno.