L’antico codice albanese del Kanun – canone – che risale al 1400, mantiene consuetudini che ordinano e che sembrano tutt’oggi regolare la vita sociale di alcune zone montuose e remote del paese. Tra le leggi fondamentali che compongono il canone – tramandato per lo più a voce, considerando l’alto tasso di analfabetismo degli abitanti locali – una delle più singolari, tuttora vigente, e non solo in Albania ma spesso anche nel nostro sud Italia dove la norma è stata importata, è sicuramente quella di vendicare con l’omicidio i parenti maschi dell’assassino, addirittura fino alla terza generazione.
Ma è delle vergini giurate – le burneshat, che sembrano ancora essere vigenti -che vogliamo parlare, e quindi del film tratto dall’omonimo libro dell’albanese Elvira Dones, portato sugli schermi dalla giovane regista romana Laura Bispuri.
Trattiamo di condizione femminile, di donne che, per i medesimi diritti degli uomini, o più semplicemente al fine di non subire costrizioni dal genere maschile, accettano di rinunciare alla propria femminilità, votandosi alla verginità e rinunciando per sempre alla sessualità. In tal modo esse infatti acquisiscono il “privilegio” di indossare abiti maschili e di imbracciare un fucile fino al punto di vendicare i parenti –e fumare, bere, cavalcare e bearsi di tutto il resto possibile agli uomini.
Hana, ragazzina orfana, viene introdotta nella famiglia dello zio e lì incontra Lila, sua cugina e da quel momento in poi compagna di vita. La condivisione di una quotidianità semplice ma limitativa tra le nevose montagne dell’entroterra albanese spingeranno ben presto le due ragazze a scelte contrapposte ed estreme: la fuga in Italia, per Lila; diventare vergine giurata, con tanto di cerimonia, per Hana, che assumerà il nome di Mark. Fino alla morte degli zii quest’ultima trascorrerà molto tempo tra i pastori, dopo deciderà di recuperare qualcosa di perduto. Ed è proprio questo il viaggio più importante che la ragazza si accingerà a fare.
Alba Rohrwacher non delude, il suo silenzio esprime, attraverso il corpo androgino ed il taglio di capelli maschile e l’espressività rassegnata accompagnata da gesti stanchi, la drammaticità di una persona che, come una pianta costretta al buio, non riesce ormai più a proseguire. Da qui ritratti di una solitudine infinita, avvalorata dal contesto algido delle montagne, del tutto prive di anime, dove Mark/Hana, nella casa spoglia, sopravvive ad una totale mancanza di affetto. Non si riconosce più in lei la ragazzina vitale che è stata – la storia corre tra presente e passato – né, oramai, la ragione della scelta fatta. E dunque vivere o morire: questo sarà il movente per cui Mark si muoverà altrove.
Non si inquadrano più le montagne, ora, e la macchina da presa rincorre Mark in città – un centro abitato disadorno al punto da somigliare quasi un po’ ai rilievi lasciati alle spalle, come fosse anch’essa proiezione del pensiero introspettivo della giovane, inquietudine come freddo serrato dentro -, mentre lui diviene sempre più Hana.
Un’accoglienza senza entusiasmo, dove la giovane nipote irriverente, così diversa da quel che Hana e Lila sono state, sarà però l’anello di congiunzione che, inconsapevolmente, porterà Hana ad affrontare ciò che sta cercando. Nella piscina che la ragazza frequenta, si avvicendano all’infinito, come in una stazione termale senza tempo, corpi tatuati maschili e femminili, attraenti o meno e di ogni età, aspetti carnosi od ossuti e comunque oggetto di una cinepresa curiosa ed ingorda che diviene lo sguardo concupiscente di Hana. Tra corporature e costumi, odore di cloro e umidi umori, ci nutriamo di quella fisicità rendendoci conto che è all’amore che Hana sta pensando e che dunque, presto, l’erotismo sarà la logica conseguenza che irromperà nella realtà della ragazza – rompendone l’integrità. Sesso rubato e fugace, ma comunque efficace. Non ci si chiede che tipo di amore sia quello tra Hana ed un ragazzo qualsiasi che non esita a farsi toccare nella toilette della piscina. E’ il superamento del tabù, sacrificato per la riconquista di qualcosa di fondamentale. E questo è quanto basta.
Nel ricomporre se stessa, Hana ritroverà anche Lila, fuggita via da lei come quella stessa parte che va, lentamente, ritrovando.
Ed anche attraverso l’ultima scena non possiamo esimerci dall’ammirare la Rohrwacher che, con semplicità e garbo, ci comunica la serenità ritrovata di un’esistenza finalmente schiusa

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