di ARMANDO ANDRIA/ Vermiglio, nell’opera seconda di lungometraggio di Maura Delpero, non è un colore, ma il nome di un paesino montano di 2000 anime in provincia di Trento, a ridosso del Passo Tonale, raccontato durante l’ultimo anno della Seconda guerra mondiale. Dopo aver dedicato i suoi lavori precedenti a degli intensi ritratti, in particolare femminili, prima attraverso il documentario (Signori professori, Nadea e Sveta) e poi con il cinema di finzione (Maternal), in questo nuovo film la regista sembra adottare una prospettiva opposta, puntando a restituire sullo schermo, attraverso le vicende di alcuni abitanti del paese, lo “spirito del tempo” di un intero microcosmo. Un microcosmo che per Delpero non è scelto a caso: Vermiglio è il paese d’origine della sua famiglia paterna.
Su questo dato personale si tornerà più avanti, intanto qual è dunque questo “spirito del tempo” di Vermiglio tra il 1944 e il 1945? In quattro stagioni la natura compie il suo ciclo, recita la sinossi ufficiale del film, alludendo a una dimensione in cui le vicende umane sono inscritte dentro un ordine più grande, dove è la natura a dettare tempi e forme del vivere quotidiano, definendo un orizzonte di senso in gran parte inafferrabile. Da un autunno a un’estate, si avvicendano a Vermiglio nascite e morti, feste e malattie, la buona e la cattiva sorte; ma gli uomini e le donne che questi avvenimenti vivono sembrano lì ad accoglierli come espressioni di un destino, con spirito di quieta accettazione. Così, nella casa del maestro Cesare e di sua moglie Adele, la perdita prematura del nono figlio, di pochi mesi, a causa di una malattia polmonare, è spiegata dal medico del villaggio come la sfortuna di una creatura nata impreparata al mondo; la guerra stessa è una tragedia di cui arrivano chiari e forti gli effetti (gli uomini che non torneranno dal fronte), senza che l’ordine delle cose, a tale distanza dal teatro del conflitto, ne sia sconvolto.
A questa materia corrisponde una forma della rappresentazione del tutto coerente, in cui la regia, accompagnata dalla camera di Mikhail Krichman (direttore della fotografia abituale di Andrey Zvyagintsev), si attesta con piglio olmiano nello spazio angusto di una taverna o sul crinale di una montagna che si apre su un’intera vallata, prendendosi tutto il tempo per stare in un paesaggio o in un interno prima di raccontare le figure che li abitano. Anche qui, dunque, l’affermazione di un differente equilibrio tra le componenti abituali del racconto. I movimenti sono minimi, quasi che si preferisca non disturbare quell’immersione nell’esperienza del luogo alla cui realizzazione l’intera messa in scena appare tendere. Tra cinema e ricerca, tra estetica e etnografia, Delpero (evidente la sua formazione di documentarista) definisce con serena determinazione un modo di fare cinema, un metodo, del quale sono parti fondanti anche l’impiego per la maggior parte dei ruoli di persone del posto invece che di attori professionisti e la fedeltà al dialetto locale.
Eppure questa “misura”, questa apparente immobilità dei corpi e dei sentimenti, è percorsa in realtà da un costante turbamento, prima sotterraneo poi più intenso. Basti pensare al responsabile e custode di questa frugalità collettiva, proprio il capofamiglia Cesare (un solidissimo Tommaso Ragno), unico maestro, intellettuale e quindi in qualche modo guida morale del villaggio, che mentre si occupa di frenare tutti i possibili eccessi dei componenti della tribù, tuttavia non disdegna di fumare dopo cena e, soprattutto, di ascoltare i preziosi dischi che si fa arrivare “dalla città”. E’ la vita che s’insinua appena intravede uno spiraglio e si manifesta prima in quanto scarto minimo dalla compostezza, dalla norma, e che trova poi nell’espressione del femminile (ovviamente) la forza per tracimare e rompere gli argini. Non si dirà qui delle evoluzioni narrative straordinariamente significative che conoscono due delle donne della famiglia di Cesare e Adele; ma ci piace almeno evidenziare la carica sovversiva di un personaggio sulla carta “minore”, l’adolescente Virginia, che con la sua figura esile, irrequieta, attraversa danzante la festa e smuove sguardi e soprattutto desideri che nemmeno ancora sanno di essere tali.
D’altra parte è da un’origine letteralmente perturbante che viene Vermiglio, se è vero che questo film, racconta Maura Delpero, glielo ha portato in sogno suo padre, una notte di alcuni anni fa, pochi giorni dopo la sua dipartita, apparendole bambino, come lei evidentemente non l’aveva mai conosciuto, e spingendola da lì a immaginare quale potesse essere stata la sua vita a quel tempo. Oggi Vermiglio, prodotto dalla giovane Cinedora con partecipazioni produttive anche dal Belgio e dalla Francia, si ritrova con felice sorpresa nel concorso principale di Venezia accanto a nomi come Almodóvar, Guadagnino e Larraìn, e ci appare un cinema italiano inatteso e provvidenziale, un vero oggetto non identificato, il segno che il cinema può ancora risiedere nell’essenzialità del luogo in cui il rigore incontra la poesia.