Un fitto reticolo di rami e chiome sovrasta, proteggendolo, il nostro sguardo prima che questo possa aprirsi alle immagini davanti a sé, e il nostro sguardo, in lento travelling, insiste, come incantato, su questa contemplazione in contre-plongée per alcuni minuti pieni di cura e di grazia, non meno che di mistero. Siamo all’interno di un nido? È l’apertura di Evil Does Not Exist, il film che Ryusuke Hamaguchi porta in concorso quest’anno a Venezia (per la prima volta), che da subito annuncia la dimensione potentemente ecologica in cui sarà immerso.

La melodia soave che ha accompagnato questo ingresso nel mondo del film – e in questo film-mondo – viene interrotta bruscamente, senza preavvisi o dissolvenze, da uno stacco sonoro netto: Hamaguchi mette a tacere la musica con un silenzio improvviso (scelta che sarà ripetuta regolarmente più avanti) per allertarci un po’ godardianamente che sì, questo è un film.

Siamo nel villaggio di Mizubiki, alla periferia di Tokyo, dove Takumi e la piccola Hana, padre e figlia, conducono, come altre generazioni prima di loro, una vita modesta assecondando i cicli e l’ordine della natura: raccogliendo l’acqua al fiume per sé e per altri compaesani, procacciandosi la legna per scaldare la casa, preparando i pasti che consumeranno insieme. Poi uno sparo improvviso rimbomba dalla foresta – un’altra frattura sonora che interviene a spezzare la composizione – sembra vicino ma “no, viene da lontano”. Un segno, però, certamente; come sarà più avanti la goccia di sangue caduta sul ramo in piena foresta.

Ma se Drive My Car era un film con aspirazione (pienamente realizzata) di romanzo – avventura entusiasmante di esistenze desideranti che attraversano lo spazio e il tempo, come il cinema europeo e quello statunitense da tempo non riescono più a immaginare – che cos’è questo Evil Does Not Exist?

Alla base c’è un discorso ambientalista, ecosistemico, che sostiene e nutre il film di una materia politica urgente e attuale. “Tutto ciò che accade a monte, prima o poi arriverà a valle”, afferma Takumi con eloquente semplicità durante l’assemblea cittadina in cui i residenti discutono dello scellerato progetto di gampling calato dalla metropoli e destinato a distruggere l’ecosistema dell’altopiano. E fa impressione la lucidità politica con cui Hamaguchi svela in una sola sequenza, questa dell’assemblea, pur dalla durata eccedente (viene alla mente l’ultimo Mungiu, un’altra fluviale assemblea pubblica di chirurgica precisione), tutta la falsità dei processi cosiddetti democratici che sono alla base degli atti di sfruttamento, estrazione di valore e sussunzione che il capitalismo coloniale contemporaneo compie ovunque nel mondo.

Ma a fronte di una tale limpidezza e linearità di discorso, non è qui che l’ispirazione di Hamaguchi trova ancora piena soddisfazione. D’altra parte, la notte prima dell’assemblea, i fari delle auto che lasciavano la casa di Takumi dopo l’incontro tra i residenti avevano per qualche secondo illuminato in maniera intermittente l’interno della casa per rivelare lo stesso Takumi, rimasto solo, nell’atto struggente di sfiorare il pianoforte che sua moglie usava suonare insieme a Hana (ce lo rivela una foto sulla tastiera). Il film è qui. Sono le orme lasciate lungo il percorso, gli slittamenti continui tra i vuoti e i pieni, e su tutto i silenzi armonici con la natura circostante, a determinare per questo Evil Does Not Exist un respiro precipuamente lirico più che romanzesco, una natura misteriosa e poetica più che dimostrativa.

Più precisamente: l’impressione è che tutto quanto di esterno (di esteriore, di politico, di “pubblico”) si presenta nel film, sia il frutto di un movimento fluido che ha la sua silenziosa origine nell’interno. Di questo movimento, assimilabile in tutto al flusso dell’acqua che non a caso il progetto di gampling andrà a compromettere, Takumi e Hana sono i tramiti e i facilitatori. In loro abita il segreto dell’equilibrio. Takumi ne è il custode e in qualche modo il profeta: lo dice nelle (poche, essenziali) parole che puntellano i più frequenti silenzi, ma soprattutto lo pratica in un vissuto di comunione con l’altro da sé. La piccola Hana ne è l’interprete, la muta depositaria. A loro sarà dato, nel finale, al cospetto delle conseguenze dell’infrazione del patto, di cercare un nuovo punto di equilibrio.

“Tutto ciò che accade a monte, prima o poi arriverà a valle”: stavolta intendiamolo in un’accezione filosofica e poetica. Questo è un film in cerca dell’unità, questo è un film contro la separazione. Il male, così come il bene, non esiste.

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