di Armando Andria /  La fabbricazione di una spada all’interno di una fonderia, le inquadrature rapide sui dettagli del lavoro, i suoni precisi e assordanti prodotti dagli arnesi sul metallo. Così si apre il film che Shin’ya Tsukamoto, nei (consueti) molteplici panni di regista, sceneggiatore, direttore della fotografia, montatore e interprete, porta quest’anno a Venezia. E sembra subito il solito Tsukamoto, febbrile cantore del metallo e della macchina, cineasta industrial insuperato. E invece no, o almeno non proprio.

Perché questo Zan è un viaggio nella storia che conduce il cinema di Tsukamoto per la prima volta oltre il Novecento, indietro fino a un XIX secolo in cui il Giappone è in pace, nello scenario di una vita agricola apparentemente tranquilla. Qui, tra campi di riso e foreste, il samurai inattivo Tsuzuki, per non perdere la sua abilità nel maneggiare la spada, si allena quotidianamente con Ichisuke, il figlio di un contadino. La sorella di questi, Yu, li guarda esercitarsi con preoccupazione: innamorata segretamente (e segretamente ricambiata) di Tsuzuki, sente che presto lo vedrà partire per combattere. Quando nella vita dei tre entra il samurai anziano Sawamura, deciso ad arruolare combattenti per eliminare dal Paese i ronin fuorilegge, i timori di Yu si realizzano in pieno.

Lontano dunque dai suoi consueti scenari, lontano anche dalla Seconda guerra mondiale dell’ultimo allucinato Fires on the Plain (2014), Tsukamoto sembra voler essenzializzare il suo discorso, andando indietro fino all’arma che condensa in sé tutte le armi, la spada dei samurai. Un modo per “avvicinarsi all’essenza dell’uomo”, come ha affermato lui stesso.

Eppure di combattimenti se ne vedono pochi. Mentre avanza l’addestramento, etico più che tecnico, che Sawamura impartisce a Tsuzuki, il film vive piuttosto nell’attesa o, meglio ancora, nella paura del combattimento. Davvero una singolarità per un film di samurai, e qui sta la scelta davvero forte di Tsukamoto. Per quanto abile, per quanto impaziente di ricambiare la fiducia di Sawamura e ansioso di vendicare i torti perpetrati dai ronin, il giovane Tsuzuki vede bloccarsi il proprio percorso iniziatico come suol dirsi sul più bello, davanti alla domanda delle domande: “Come fai a uccidere?”, chiede a un tratto a Sawamura, centrando il nucleo di pensiero del film, “Io non ne sono capace”.

Un ruolo cruciale nel tormento interiore del protagonista lo ricopre Yu e ciò che mette in campo per impedire la carriera da guerriero del ragazzo. Colpisce, in questo personaggio femminile piuttosto inedito concepito da Tsukamoto, l’elemento straordinariamente fisico e pulsionale (sempre in relazione al mondo e al tempo raccontati nel film). Lontano dall’immagine di un femminile dimesso e subalterno, Yu è dominata da quei sensi che dovrebbe mettere a tacere, e lascia che questi diventino un fattore determinante. In una folgorante sequenza notturna, per esempio, i due giovani, ai lati opposti di un muro di canne, si sfiorano le mani, sublimando così quel desiderio che sono impossibilitati a concretizzare; finché Yu, in un impeto di passione e di rabbia, sorprende Tsuzuki mordendogli violentemente un dito.

Il film si apre all’improvviso in squarci fulminei di intensa bellezza (i pochi duelli, splendidi, si risolvono quasi sempre in pochissimi secondi), ma in quanto a costruzione narrativa e ordito psicologico, è di una semplicità e asciuttezza mirabili. Ci pare, questo, il segno di una nuova maturità raggiunta dal regista, che ora unisce alla foga e alla rapidità d’azione uno sguardo più consapevole ai maestri della tradizione giapponese. E forse, persino, uno spettro riflessivo più ampio.

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