Perchè sì

Perchè no

di Alessia Brandoni

Simbolico, sensuale, molteplice, visionario: composto, e concedeteci l’abusato riferimento, della stessa materia di cui sono fatti i sogni e le immagini.

E dunque ambiguo nelle immagini – come sempre, d’altronde, dovrebbe essere – e dialettico nel contenuto – ma la posizione laica del regista, anzitutto rispetto alla drammatica vicenda di Eluana Englaro, scorre in filigrana lungo tutto il film così come, e significativamente, scorrono gli spezzoni del penoso spettacolo che la televisione montò sulla vicenda.

Un film che è anzitutto espressione artistica, complessa e senza compromessi – congiuntura quasi impossibile – lontana anni luce dal cinema che imita – nei dialoghi superficiali e nelle inquadrature a una dimensione-, la Tv. 

Bella addormentata è allora il tema del fine vita che, come correlativo, ha quello dell’andare oltre (i dogmi, le chiusure, gli steccati e le convenienze) ma nella vita che abbiamo. Ma Bella addormentata è anche l’Italia stanca e angosciata che fatica a risvegliarsi e che ha venduto l’anima al diavolo – qui impersonato da un grande Roberto Herlitzka,  luciferino e attore consumato che, proprio in questa duplice connotazione, rimanda alla potenza manipolativa della televisione. E belli addormentati sono alcuni tra i personaggi messi in scena nelle tre storie che (kiesloskianamente) si sfiorano e si rincorrono lungo i binari e i tragitti sparsi lungo tutto il film. Laddove la metafora della linea ferroviaria che il regista sceglie di tracciare su uno dei tanti luoghi possibili dove prima non c’era niente (suggerita da F.S. Fitzgerald nel suo magnifico Gli ultimi fuochi), sembra avere qui ancora più senso senso se si pensa a come, e a dire dello stesso regista, il film, almeno in parte, si sia costruito e trasformato durante la realizzazione.

Perché, ed è bene precisarlo subito, a parere di chi scrive questo è un film sul cambiamento, sulla necessità (per l’uomo e di conseguenza per lo spazio organizzato che si ritrova ad abitare insieme agli altri) di cambiare. E allora il terreno di incontro/scontro riguarderà chi è sveglio e aperto al dialogo, e quindi al cambiamento, e chi invece dorme. Così che tra questi ultimi ci sarà chi dorme imponendo, stolidamente, la sua fede narcisista, e alla fine perdendo la ragione (il personaggio interpretato dalla somma Huppert), chi dorme vendendo/perdendo l’anima al diavolo (i politici al confessionale di Herlitzka), chi dorme perdendo se stesso nella dipendenza (la donna meravigliosamente interpretata dalla Sansa).

Intelligentemente, Bellocchio capovolge lo stereotipo dell’intransigenza, che vede il suo oggetto di riferimento preferito nel fanatismo religioso, facendo della credente (intepretata dalla Huppert), attrice consumata e devota assoluta (anzitutto nel suo amore narcisista), una vittima, anche se più della gelosia del figlio rifiutato  che di un diverso pensiero. Sintomatica, poi, la traiettoria che vede la non più giovane madre/attrice rispecchiarsi nella figlia, giovane vittima di un coma irreversibile, che lei vuole tenere in vita a tutti i costi come suo riflesso perfetto, così che in un lampo di rabbia – controllata e crudele come solo la Huppert ci ha abituato – fa togliere dalle pareti della casa tutti gli specchi. La medesima madre/attrice, quindi, e tanto nel marito e nel figlio quanto nello spettatore, insinuerà il dubbio che tutto quello che stiamo vedendo non sia altro che una recita (uno straniamento che all’interno del procedere, spesso trascinante, del film funziona perfettamente), una recita che terminerà con la sua onnipotente ascesa alla santità.   

Magnifica, poi, anche se questa volta nel registro del cinico, la recita da basso impero messa in scena dai politici nella sala delle terme (una sorta di parlamentino occulto), nella quale il sulfureo grande vecchio (Herlitzka) del partito allora al governo (il Pdl), al minimo dubbio o angoscia espressa da qualche parlamentare gli consiglia di prendere degli antidepressivi (o di vedere la Tv, come poco prima suggerisce qualcun altro), in tal modo negando il valore del conflitto – come dire meglio il sonno alla scoperta del vero sé.  

Come spesso accade nei film di Bellocchio, il dolore è al centro delle relazioni tra i diversi personaggi, e se il medico (interpretato da Pier Giorgio Bellocchio) in una discussione con la donna tossicodipendente (la Sansa) arriva a sostenere con passione la necessità di superare il dolore, in realtà l’amore e tutti i rapporti importanti che vediamo rappresentati in Bella addormentata nascono e ruotano intorno ad esso.

Bellocchio, in passato, è stato un regista da molti bollato come “politicizzato” – in realtà rispecchiava le speranze di una stagione, il Sessantotto, che era anche la stagione della sua gioventù. Oggi potremmo dire che il politico nel suo cinema passi più attraverso una dilatazione e una figurazione (spesso allucinata) del reale. Il linguaggio che usa (la linea che traccia sulla pagina bianca), e alla faccia del presunto provincialismo di cui è stato accusato, è in ogni caso quello universale del Cinema. Così, mettendo insieme tutti i diversi aspetti in una prospettiva significante, non si può non notare come la sua indagine filmica sia colma di un coraggio che stranamente non gli si vuole pienamente riconoscere, proprio in questi giorni echeggiando, a destra come a sinistra, ingiuste interpretazioni su una sua presunta prudenza nel prendere una posizione chiara all’interno del dibattito sull’eutanasia così da non scontentare nessuno. E questa, oltre al noto adagio della trave nell’occhio, suona sì come una visione (malevolmente) autoreferenziale.

Bellocchio, insomma, e almeno pensando all’immagine scelta per promuovere il suo film, sembrerebbe essersi ritagliato il ruolo di principe azzurro (anche se francamente ce lo immaginiamo in veste più dark), ossia di colui che, con la sua appassionata e rigorosa visione, potrà infine aprirsi un varco tra i rovi e risvegliare la bella addormenta dal suo sonno.

E scusate se è poco.   

di Fabrizio Croce

“Ma non posso vivere senza di te, Io non riesco a vivere legato a te…”.

Durante la visione del film di Marco Bellocchio Bella addormentata mi sono venuti in mente questi versi della canzone di Simone Cristicchi Legato a te che al primo ascolto sembra che parli di una di quelle storie d’amore impossibili a cui ci ha sentimentalmente educato il cinema di Francois Truffaut (ne con te, ne senza di te), mentre andando oltre e arrivando alla fine si rivela come la storia tra un uomo malato terminale e il macchinario che lo tiene in vita. Quella canzone evocava in filigrana la vicenda di Pier Giorgio Welby e la sua battaglia per il diritto a morire, a smettere di continuare a vivere una vita che non reputava più degna di essere vissuta. Il film di Bellocchio evoca invece un’altra vicenda, quella di Eluana Englaro, forse ancora più controversa e dolorosa, perchè mentre Welby aveva ancora la possibilità di esprimere la propria volontà, Eluana, in coma vegetativo da diciassette anni, aveva lasciato questa dolorosa scelta al padre che conosceva le idee della figlia e sapeva che non avrebbe voluto continuare a vivere in quelle condizioni. Questa cornice introduttiva è importante tanto per la canzone di Cristicchi che per il film di Bellocchio, perchè anche nella  visione di quest’ultimo non ho maturato inizialmente alcuna riflessione o pensiero rispetto alla vicenda della Englaro o al tema dell’eutanasia, ma quello che ho trovato, almeno nelle intenzioni della storia e, in potenza, nelle immagini è l’aspirazione di andare ad indagare un tema più assoluto ed universale come quello dei legami tra gli esseri umani concepiti come corpi impazienti, irrequieti, alla ricerca di un contatto con l’altro che sia più autentico e spogliato dalle maschere e dai condizionamenti della società, della cultura e dell’ideologia.

Il mondo di Bella Addormentata, che fin dal titolo si rifà a un archetipo femminile delle favole, ad un destino di attesa e passività, è  popolato da personaggi che ricoprono delle funzioni: la Figlia, il Padre, la Santa, l’Innamorato, il Folle, la Suicida, il Salvatore. Le interazioni tra queste persone sono fortemente condizionate dalle funzioni che ricoprono, dal significato che ogni loro gesto e ogni parola assumono dentro il discorso in cui Bellocchio ci vuole accompagnare, cercando di farci maturare, tramite l’emozione del cinema (luce, suono, associazioni di idee attraverso associazioni di immagini) una  riflessione che vorrebbe essere quanto mai profonda ed inquietante sull’interdipendenza delle relazioni, su come non ci siano tanto una predestinazione o un fatalismo a motivare le scelte delle persone, ma vincoli che ci tengono legati gli uni agli altri; e come la volontà di crearli (“con te”) o di spezzarli (“senza di te”) influisca in modo decisivo sulla percezione soggettiva del mondo dentro e fuori di noi. Il problema è che questo discorso rimane sospeso nell’atmosfera rarefatta che si respira dentro il film e le immagini stesse, per quanto tendano ad una suggestione, una tensione da horror esistenziale che ha sempre caratterizzato lo sguardo di Bellocchio, restano involute, quasi ripiegate dentro il determinismo dei personaggi e del loro agire.

Così la casa-mausoleo in cui Isabelle Huppert, la Grande Attrice ritiratasi dalle scene e decisa  ad immolarsi sull’altare del corpo paralizzato della figlia in coma vegetativo come Eluana, diventa l’espressione di un’intransigenza, di una deformazione grottesca, un’esasperazione della realtà che esclude completamente l’esterno, anche quando questo, in teoria, dovrebbe far parte del suo spazio fisico ed emotivo (l’altro figlio che vorrebbe fare l’attore e che lei non “vede” e non “ascolta” in senso letterale e metaforico). Un nucleo potente, sicuramente l’episodio più vibrante nella struttura rapsodica del film, che però si perde dentro gli altri episodi, crea delle attese che sono legate proprio alla possibilità di un’immagine folgorante mentre lo sguardo di Bellocchio, assecondando fin troppo il personaggio della Huppert, si chiude a riccio, mancando di prendere una posizione estetica, quella che in questo contesto, parlando di cinema, ci interessa di più, più della posizione etica. Tuttavia questa frattura, questa mancanza di dialettica tra visione e riflessione a volte stride e più spesso irrita, come se l’occhio fosse condotto in una direzione mentre la testa vorrebbe dirigersi verso un’altra.

Al contrario, gli altri episodi sono afflitti da un simbolismo ovvio, sottolineato da dialoghi esplicativi e quasi didattici come quello lunghissimo ed estenuante tra Maya Sansa, tossica con tendenze suicide, e Pier Giorgio Bellocchio, il medico che la “salva” nel corpo e nello spirito e, attraverso uno schiaffo, gesto molto paternale, ne scalfisce la protezione di sarcasmo e disperazione, più costruita dall’astrazione delle parole che da un’autentica sofferenza esistenziale. Per questo non si crede neanche un attimo a quello che dice e quando la mdp crea un campo contro-campo tra lei di spalle che apre la finestra e il suo volto che si affaccia sul mondo, possiamo esseri sicuri che quel duello verbale a cui abbiamo assistito era una pantomima, una recita in cui ognuno era chiamato a intepretare un ruolo, con la stanza di ospedale che sembra quasi lo spazio di una rappresentazione teatrale.E questo straniamento sarebbe anche tollerato se non ci fosse l’episodio in cui Alba Rohrwacher, attivista e fervente cattolica che crede nella necessità di continuare a tenere in vita Eluana, viene “distratta” nella sua missione dalla scoperta dell’Amore con la stessa forza e passione dell’imperativo del film di Luca Guadagnino di cui era protagonista (Io sono l’amore). Uno sconvolgimento che dovrebbe aprire, squarciare la rigidità ideologica in cui una situazione come quella di Eluana ha spaccato un mondo raccontato da Bellocchio come sprofondato nel fanatismo e nel delirio, visto che anche il personaggio che maggiormente sostiene la libera scelta rispetto all’eutanasia è un individuo psicolabile che trova, nella causa, solo il pretesto per esprime il proprio esasperato narcisismo, alla stregua della madre/martire interpretata dalla Huppert.

Ancora una volta però l’arco del racconto ripiega su un’impennata, un momento di intimità e di verità sulla corda di una situazione costruita, di cui Bellocchio sente l’urgenza di spiegare i segni che ha sparso durante la narrazione: così veniamo a sapere che la radice dell’ostilità della Rohrwacher nei confronti di Toni Servillo, padre e deputato del Pdl, dilaniato da una scelta che lo mette in contrasto con la figlia e con il proprio partito, risiede in quei flashback di una camera d’ospedale in cui entrambi, ma in maniera opposta, congedarono la moglie\madre malata terminale, lei supplicandola di resistere, lui, su richiesta disperata della donna, staccando il macchinario che la teneva in vita.

E la Rohrwacher, in un dialogo orrendamente didascalico, gli dice che ora grazie all’Amore percepisce in un’altra prospettiva l’abbraccio tra il padre e la madre che aveva spiato dalla fessura della porta: non più per quello che è, il risultato di un atto consapevole ad una richiesta consapevole, ma semplicemente un gesto d’amore, quello che l’Amore che le si è appena rivelato vuole farle vedere.

E poco importa se subito dopo strapperà dalle mani del padre la dichiarazione di voto con tanto di confessione sulla sua vicenda personale, perchè ciò che interessa a Bellocchio non è tanto il conflitto tra lo staccare o non staccare la spina, ma il rovesciamento, anzi meglio l’assunzione di una prospettiva, di una giusta distanza in questa zona minata dove tutto è bianco o nero, per ascoltare e capire prima di giudicare. Tutto dunque è sfumato e diluito, come il vapore che inonda la sauna senatoriale dove si consuma parte del conflitto etico di Servillo, uno scenario abitato da politici che sembrano fantasmi di una Storia remota, caricature senza senso che hanno spazzato ogni possibilità di porsi un quesito morale, loro più che mai funzioni che Bellocchio utilizza per dare una contestualizzazione politico-sociale, anche con cadute nell’ovvietà della battuta facile (“In Italia senza il vaticano non si governa”) che però crea ulteriori fratture e scompensi rispetto alle altre storie troppo chiuse nella contemplazione e nella riflessione.

Forse in realtà l’unica riflessione che desideravo suscitassero le immagini di Bellocchio è contenuta nella conclusione della citata canzone di Cristicchi, senza ambiguità, senza interpretazioni o astrazioni intellettuali

“Vorrei essere libero di finire…”

One Reply to “VENEZIA 69/Bella addormentata di Marco Bellocchio”

  1. A me il film è piaciuto molto, premetto.
    Incuriosito dalle due recensioni e dal fatto di averle trovate entrambe convincenti e molto ben scritte, ho provato a confrontarle, senza pretese esegetiche; solo con più attenzione per capire quale lettura avesse maggiore suggestione, o quali corde toccassero l’una e l’altra, così da spingermi ad una più consapevole comprensione
    Ovviamente di recensioni se ne possono scrivere tante, anche contrastanti tra loro e pur valide secondo il punto di vista rappresentato, perché allora confrontarle? Solo perché “divisioni” e l’abbreviazione vs spingono a ad un prevalere di una tesi, verso una ragione e un torto? Può darsi. O perché dal confronto possono scaturire più facilmente nuove tensioni? Nuove conoscenze? È probabile. Comunque la sensazione, nonostante i perché sì e perché no, è che non ci sia un prevalere, per fortuna..
    Le due recensioni, in questo caso, sembrano poter fondersi l’una con l’altra, compenetrarsi. Dove l’una si ferma l’altra riprende, dove in una c’è uno spunto, l’altra sembra svilupparlo e così leggendole si rilegge il film.
    A prima vista sembrerebbe che le differenze siano forti : là dove Alessia afferma che la posizione laica di Bellochio scorre in filigrana rispetto alla vicenda di Eluana e Fabrizio sostiene che la visione del film non ha generato alcuna riflessione o pensiero rispetto alla vicenda della Englaro, sembrano posizioni inconciliabili; salvo poi ricomporsi quando A. svela che il tema del fine vita ha, come correlativo, quello dell’andare oltre (i dogmi, le chiusure, gli steccati e le convenienze) ma nella vita che abbiamo, e il linguaggio che usa Bellocchio è, in ogni caso, quello universale del Cinema. Ecco il corrispettivo in Fabrizio “ma quello che ho trovato, almeno nelle intenzioni della storia e, in potenza, nelle immagini è l’aspirazione di andare ad indagare un tema più assoluto ed universale come quello dei legami tra gli esseri umani concepiti come corpi impazienti, irrequieti, alla ricerca di un contatto con l’altro che sia più autentico”. E Alessia “…. Come spesso accade nei film di Bellocchio, il dolore è al centro delle relazioni tra i diversi personaggi, e se il medico (interpretato da Pier Giorgio Bellocchio) in una discussione con la donna tossicodipendente (la Sansa) arriva a sostenere con passione la necessità di superare il dolore, in realtà l’amore e tutti i rapporti importanti che vediamo rappresentati in Bella addormentata nascono e ruotano intorno ad esso”.
    Fabrizio, in una parte molto ispirata della recensione, ci dice che “ Il mondo di Bella Addormentata, che fin dal titolo si rifà a un archetipo femminile delle favole, ad un destino di attesa e passività, è popolato da personaggi che ricoprono delle funzioni: la Figlia, il Padre, la Santa, l’Innamorato, il Folle, la Suicida, il Salvatore. Le interazioni tra queste persone sono fortemente condizionate dalle funzioni che ricoprono, dal significato che ogni loro gesto e ogni parola assumono dentro il discorso in cui Bellocchio ci vuole accompagnare, cercando di farci maturare, tramite l’emozione del cinema (luce, suono, associazioni di idee attraverso associazioni di immagini) una riflessione che vorrebbe essere quanto mai profonda ed inquietante sull’interdipendenza delle relazioni, su come non ci siano tanto una predestinazione o un fatalismo a motivare le scelte delle persone, ma vincoli che ci tengono legati gli uni agli altri; e come la volontà di crearli (“con te”) o di spezzarli (“senza di te”) influisca in modo decisivo sulla percezione soggettiva del mondo dentro e fuori di noi”.
    Qui i piani interpretativi ed emozionali dei due si confondono, a parer mio. I legami, le finzioni, i rapporti e le interazioni, ognuno viene giocato e rappresentato all’interno della sua funzione, ma anche con scatti che scuotono il torpore e che vogliono contribuire a svegliare la bella addormentata dal suo sonno di dolore che, come nota A. è il generatore di questi legami, di questi rapporti e di queste finzioni. Questi legami dunque, si muovono e interagiscono in uno scenario fiabesco e archetipico là dove l’archetipo è quello del dolore.
    Ora ci sono dei momenti, delle sequenze precise che sembrano infastidire F. e sui quali, effettivamente, inizialmente si conviene; là dove percepisce un “simbolismo ovvio, sottolineato da dialoghi esplicativi e quasi didattici”, e “le immagini stesse, per quanto tendano ad una suggestione, una tensione da horror esistenziale che ha sempre caratterizzato lo sguardo di Bellocchio, restano involute, quasi ripiegate dentro il determinismo dei personaggi e del loro agire”, bè sì, magari ripensandoci si può essere d’accordo, ma poi sorge il dubbio che l’infastidimento nasca da un desiderio fortissimo che l’opera sia perfetta, che raggiunga istantaneamente il centro vitale, il nocciolo dove il significato si fonde con il significante in un lampo accecante. La sua conclusione è quasi esplicita in tal senso.
    Allora la mia conclusione è che il film è bello, ed è bello anche perché non raggiunge questa perfezione; che poi di fatto renderebbe sterile un mondo dove il sogno, la fiaba, le interazioni imperfette i legami impacciati, le rappresentazioni delle finzioni e e le manifestazioni in un certo senso coraggiose del proprio narcisismo ci consentono di andare avanti umanamente, magari un po’ storditi, ma con ancora la voglia di altre, nuove, o anche ripescate perché no, sensazioni di vitale curiosità.

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