Kelly Reichardt è una regista indie americana che con il suo Meek’s Cutoff porta in Concorso un’opera rigorosa e potente che scardina i topoi del genere western. La storia che la Reichardt mette in scena non ha nulla di epico, e le vicende dei suoi personaggi possono riassumersi in qualche riga: siamo nel 1945 e una carovana di tre famiglie si stacca dall’Oregon Trail, uno dei principali percorsi di migrazione americani, per seguire Stephen Meek, un uomo che sostiene di conoscere una scorciatoia per giungere alle montagne di Cascade.
Che la Reichardt voglia staccarsi dalla tradizione western è chiaro fin dalla prima inquadratura: il formato che ha scelto non contempla il Cinemascope ma il 4:3, spazza via la spettacolarità alla John Wayne e tutta la mitologia che ne consegue, nessuna sparatoria o grandiosi inseguimenti, nessuna traccia di eroismo. La sua è una storia di realismo che va alle radici di una nazione facendo piazza pulita di ogni orpello del mito americano e della frontiera. Le tre famiglie con i loro buoi, i loro carri e le poche cose su di essi stipati marciano solitari nello sconfinato paesaggio dell’Oregon, immersi nel silenzio della natura rotto solo dai loro passi o dal cigolio di una ruota.
Quella della Reichardt è una regia misurata con alle spalle una sceneggiatura senza fronzoli, campi lunghi attraversati dai protagonisti che si alternano a primi piani che fissano gli alterni stadi dei personaggi. Inquadrature che incorniciano l’immenso paesaggio e lo smarrimento di quegli uomini in cerca della loro meta. Le tre famiglie presto si accorgono che Meek non è una guida sicura, e lui stesso inizia a perdere la propria fiducia quando, alternandosi giorni e colline da superare, non vede comparire la meta all’orizzonte. Rapiti dalla visione, si avverte vivida la solitudine dei protagonisti nel pregare devoti il proprio Dio; si percepisce il sudore, la paura, la fame, la fatica e la disperazione dei personaggi, nonostante l’assenza di ogni spettacolarizzazione nella messa in scena, nella sua essenza e sottrazione degli elementi ridondanti…se questo non è cinema!
Ma Meek’s Cutoff è anche una evidente parabola dell’Occidente, metafora di una nazione. Allo stremo delle loro forze, con l’acqua che inizia a scarseggiare, la carovana errante, progressivamente perduta nel loro stato di insicurezza, incontra e cattura un nativo che catalizza tutte le loro paure e angosce. La loro guida li incita contro quel selvaggio capace delle più innominabili nefandezze. Ma il profeta Meek, in tutta l’evidenza dell’incertezza in cui il gruppo è immerso, ha perso qualsiasi aura di condottiero e lascia il posto alla costernazione, allo smarrimanto, all’affannosa ricerca di altre strade possibili.
In un’opera che mette da parte tutto il caos e l’impeto virile che il genere western richiederebbe, il punto di vista è quello più contemplativo e silenzioso delle donne in scena, ‘una condizione di trans’, come la definisce la Reichardt, fatto di quotidianità, di aperture: l’interazione con il nativo avviene soprattutto con una delle donne della carovana, e il loro è un rapporto che contempla prevalentemente la curiosità, anche se mascherato e giustificato dalla convenienza.
L’indiano potrebbe conoscere la strada verso l’acqua e, legato, sembra condurli verso una sperata meta di salvezza e verso un finale che più aperto non si potrebbe. Il west non è un’epopea, ma una storia fatta di piccoli vissuti e vicissitudini esemplari da raccontare con il realismo di un’indagine.