José Luis Guerin aveva presentato nel 2007 il suo lungometraggio La cyudad de Sylvia proprio qui a Venezia. Ed è da quell’anno, proprio qui al Lido, che il suo Guest prende inizio: da settembre 2007 a settembre 2008 Guerin gira diversi festival da un continente all’altro per presentare il suo film, e il viaggio che intraprende per raggiungere ciascun concorso e competizione che lo ospita, diventa pretesto per documentare con la sua videocamera luoghi, persone, sensazioni. Dal suo status di Guest da festival (così come appare su ogni budge che trova al mattino sul tavolo della sua stanza d’albergo), Guerin ne ricava un’opera che lo trasforma in un errante ospite del mondo, un peregrinare in punta di piedi scansando il più possibile ogni invadenza. Passa così in Orizzonti due ore e tredici minuti di emozionante cinema.
Bogotà, New York, San Paolo, L’Avana, Los Angeles, Valencia, Mexico, Hong Kong, Gerusalemme, sono solo alcune tappe di un anno vissuto ramingamente attraverso incontri fortuiti, situazioni carpite sul minuto, e altre desiderate, volute e richieste, ma senza forzature, quasi a far cogliere all’altro la curiosità ostentata solo con lo sguardo e con l’occhio della videocamera. Il suo bianco e nero raccoglie momenti di umanità in alcuni momenti davvero commoventi: la vecchietta centenaria seduta sull’uscio; la giovane donna cubana distesa sul letto annoiata dalla monotona quotidianità; il vecchio fotografo cinese che mostra le foto scattate in una vita; la madre asiatica, badante in un paese più ricco, che ha sempre abbracciato altri figli per poter crescere i suoi.
La sua è una personale indagine attraverso paesi e culture disparate, ma con ricorrenti umani desideri, riflessioni, sguardi e temi. In molti, incuriositi da ciò che il regista sta facendo, gli chiederanno la differenza tra un film e un documentario, e Guerin risponderà nel settembre 2008, a chiusura del suo lavoro, con le parole di Chantal Akerman alla Mostra di Venezia 66: tra film e documentario non vi è alcuna differenza, ognuno deve contenere elementi dell’altro per poter essere una buona opera.
Guest sonda il comune che si svela inedito per il viaggiatore, permeabile davanti a un volto emblematico che diventa straordinario nella sua ordinarietà. Tra le numerose ore di girato, inserisce in fase di montaggio temi che hanno avuto una loro ricorrenza: i profeti di piazza urlanti tra le città più diverse che invitano alla conversione, mettono in guardia sull’imminente giudizio finale, schiamazzano l’insicurezza, l’incertezza dell’esistenza e della sua precarietà.
Nei luoghi dei suoi viaggi Guerin si lascia trasportare e catturare da ciò in cui è immerso, dalla vita dell’uomo comune nel suo scorrere, e lo fa con la camera a mano compartecipe; poi qua e là ci regala estetizzanti inquadrature, quadri fissi ricercati, citazionismi cinematografici (la luna dei Méliès visto attraverso il fondo di un bicchiere in aereo, i palazzi di una città statunitense con la voce off presa da Il Ritratto di Jennie che passa in tv, una suggestiva e veloce carrellata su un muro di cinta intervallato da fessure regolari a creare l’effetto di un fenachistoscopio), ma questo citazionismo, per altro affascinante, avviene in maggior misura quando Guerin si trova nei non-luoghi o negli spazi di una metropoli contemporanea: un aereo, un albergo, tra grattacieli, in un moderno caffè, come a suggerire il bisogno della finzione che allude, del cinema come umanità di rimando, lì dove regna l’impersonale standardizzato. Coabitano in Guest il tempo del ‘reale’ e quello dell’artifizio. E, a fine proiezione, si ha una irresistibile voglia di riempire uno zaino e partire.