pierpaolo pasoliniSimulazione, ipotesi di ricostruzione: così Giuseppe Bertolucci, con un nobile pizzico di umiltà, dichiara la natura del suo tentativo di montaggio del prologo de La rabbia dell’amico di famiglia Pasolini, coadiuvato, guidato e instradato dalle ricerche dello storico del cinema Tatti Sanguineti e sostenuto dai professionisti della Cineteca di Bologna, già autori anche del restauro de La rabbia (completa: Pasolini e Guareschi) presentato alla scorsa Festa del Cinema di Roma, proiezione poi dibattuta alla presenza di Giuliano Ferrara e Massimo D’Alema.

“Da un idea di Tatti Sanguineti” recitano i titoli di testa: a partire da un confronto tra il testo della sceneggiatura presente nei Meridiani Mondadori (avente diritto: Graziella Chiarcossi Cerami, erede Pasolini) e la versione della copia della Cineteca di Bologna (aventi diritto: i fratelli Gianluca e Stefano Curti, Gruppo Editoriale Minerva – Rarovideo), Sanguineti ha seguito le tracce che portavano alle immagini dei cinegiornali anticomunisti Mondo Libero (proprietà: Istituto Luce) sulle quali Pasolini scrisse i propri versi cercando (e trovando) bellezza dentro la peggior retorica della politica della Guerra Fredda.

Destino ineluttabile quello della matassa ingarbugliata per un film che Gastone Ferranti, produttore, concepì come una rilettura critica dei fatti di cronaca degli ultimi vent’anni e come una via artistica per far fruttare i cinegiornali e i tanti brevi documentari di sua proprietà. Poi, assalito dal dubbio (timorato della censura?) o dubbioso sulle potenzialità commerciali del progetto pasoliniano, cambiò in corsa e convinse, o costrinse, il poeta friulano ad accettare la sfida e la s-partita con l’emiliano Giovannino Guareschi: la stessa enorme mole di materiale vagliata, analizzata, cernita e commentata da un marxista rivoluzionario e da un monarchico cattolico. L’uno all’insaputa dell’altro, un “visto da destra, visto da sinistra” che tanta fortuna portò alle vignette de Il Candido diretto dallo stesso Guareschi.

La rabbia uscì in sala nell’aprile del 1963. Ottenne due giorni di programmazione a Roma  e Milano, uno a Firenze e Genova. Pasolini vide la parte di Guareschi solo pochi giorni prima dell’uscita ufficiale e pensò di ritirare la propria firma. Da allora il film ha avuto forse un’uscita in VHS, una in dvd in Francia (la sola parte di Pasolini) e forse un passaggio in TV nei primi anni Novanta, nella Raitre di Angelo Guglielmi.

Certo, non è mai troppo elegante protrarre artificialmente le creazioni di un artista oltre la sua morte. E per Pasolini è già avvenuto con Salò e Petrolio, usciti postumi. Sono operazioni eticamente arbitrarie che, per quanto importanti, poggiano sul terreno del “falso”. La morte è la montatrice finale, quella che dà un senso a tutto, scriveva il poeta in Empirismo eretico. Il lavoro di Bertolucci si apre con una schietta dichiarazione d’intenti del regista: non è il capriccio di un cineasta e, tra remore, scrupoli, ripensamenti e cambi in corsa, si inserisce, comunque, in un recupero tout court dell’opera. Uno studio approfondito, finalmente partecipato “da destra e da sinistra”, che al già avvenuto restauro della pellicola farà seguire, a breve, l’uscita in DVD accompagnata da un documentario dello stesso Sanguineti che ripercorre tutta la vicenda del film e al quale hanno collaborato l’archivio Pasolini, l’archivio Guttuso, la fondazione Guareschi e l’archivio de Il borghese.

Ora, in più, questa ipotesi di ricostruzione, che uscirà perfino nelle sale, porta sullo schermo i versi che Pasolini abbandonò, tagliò, per far spazio a La rabbia di Guareschi e le immagini delle cineattualità su cui il testo fu probabilmente pensato e scritto: le estreme onoranze a De Gasperi (definito “uno statista che preservò con dignità lo Stato dalla distruzione fascista); il ritorno delle ceneri dei martiri di Cefalonia (“una benedizione per l’andata, una per il ritorno”); la nascita dell’Europa (“il Mercato Comune verrà, intanto si balla il Ballo Comune”); la guerra di Corea; il ritorno degli ultimi prigionieri dalla Russia; le alluvioni; la nascita de “l’allegria” televisiva (milioni di candidati alla morte dell’anima).

Pasolini in quegli anni dialogava costantemente con i compagni sulle pagine di Vie nuove: nel numero del 20 settembre 1962 pubblica il trattamento del film, “le solite cinque paginette che il produttore chiede per il noleggio”. Nelle sue intenzioni, la rabbia del titolo è l’emozione del rifiuto della nuova normalità imposta dall’assetto internazionale della Guerra Fredda e dalla logica del ciclo produzione – consumo della società industriale responsabile della scomparsa della società tradizionale (“quando saranno morti tutti i contadini e gli artigiani allora la nostra storia sarà finita”). Un emozione fatta invettiva contro la borghesia, “uno dei pochi casi di rabbia in Italia”. Nel trattamento pubblicato si parla di episodi, come la scomparsa di De Gasperi, che rimasero fuori dal montaggio finale: ed è una delle poche testimonianze, insieme alle parole del poeta in un'intervista rilasciata al giornalista Andrea Barbato, che La Rabbia fu veramente dapprima pensato (e forse realizzato) come un lungometraggio del solo Pasolini.

Ma La rabbia fu anche di più: fu la messa in atto di quelle proposte linguistiche per il cinema di cui Pasolini scriveva in quegli anni dibattendo con i semiologi italiani e francesi e che tutti conoscono come la teorizzazione di un “cinema di prosa e di un cinema di poesia” (scritti ora raccolti in Empirismo eretico). Fu il tentativo di ampliare e modernizzare, più delle nouvelle vague e oltre le nouvelle vague, le possibilità della narrazione cinematografica e del documentario. Di certo fu un film allora sperimentale, azzardato, tentato senza prospettive e che subisce ora gli ultimi travagli (a meno che qualcuno non tenti di applicarvi i suggerimenti che diede Ugo Gregoretti per un nuovo montaggio).

La rabbia fu un lampo che dalla visione del mondo di due profondi conservatori, l’uno preoccupato che alla schiavitù dei mezzadri succedesse quella dei padroni e l’altro preoccupato che ai ritmi naturali e ai riti della tradizione contadina succedessero i ritmi e i non-valori delle metropoli e dello spettacolo, trasse quello che oggi appare come un alone profetico. La rabbia fu un bagliore, un progetto di divisione rivoltosi in un augurio di pace, che balenò un istante tra la selva di commedie, peplum e western all’italiana dei primi anni d’oro del cinema italiano.

In coda, Bertolucci ha voluto montare alcuni “servizi” che la settimana Incom dedicò in quegli anni a Pasolini: parole grette, odiose, omofobiche, un linciaggio mediatico volgare e triste che oggi ritroviamo travasato dal grande al piccolo schermo. E anche in questo, Pier Paolo fu un profeta.

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