Sono stati presentati al Palalido i due documentari legati alla tragedia della notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007 nello stabilimento di Torino della Thyssenkrupp in cui morirono sette operai, La fabbrica dei tedeschi di Mimmo Calopresti e Thyssenkruppblues di Pietro Balla e Monica Repetto. Presente in sala, oltre ai registi, Carlo Marrapodi, l’operaio calabrese della Thyssen che ha partecipato al documentario di Calopresti ma che soprattutto è il protagonista assoluto del film di Repetto e Balla, il quale dopo aver dichiarato la sua forte emozione ha chiesto al pubblico in sala un minuto di silenzio in memoria delle vittime.
Momenti di commozione hanno quindi accompagnato le due proiezioni, ma non sono mancati attimi di tensione quando, non previsto, un rappresentante della Rete nazionale per la sicurezza sul lavoro ha letto un comunicato nel quale ha attaccato governo e industrie per la totale mancanza di misure per garantire la tutela dei lavoratori. Le tensioni sono poi continuate all’esterno della sala tra alcuni manifestanti che distribuivano volantini chiedendo maggiori misure di sicurezza, e la polizia.
Lasciando da parte la cronaca ed entrando nel merito artistico dei due documentari, diremo subito che, entrambe le opere, pur affrontando la tragedia torinese, sono sostanzialmente molto diverse perché diversi sono gli obiettivi che si sono poste. Calopresti costruisce un documentario che scandaglia il vuoto lasciato dalle vittime intervistando i padri, le madri, le mogli e attraverso la loro voce tenta di ricostruire l’identità dei ragazzi, raccontando le loro speranze, i loro sogni, il loro modo di fare. Il film colpisce al cuore ma senza diventare mai patetico, rimanendo al di qua di una fin troppo facile commozione. Quello che piuttosto lascia perplessi è la parte iniziale dove, attraverso l’ausilio di Silvio Orlando, bravissimo, Monica Guerritore, Valeria Golino, Luca Lionello e Rosalia Porcaro, il regista ricostruisce l’ultimo saluto delle vittime ai propri cari. In questa scena vediamo parlare solo gli attori, che impersonano i parenti, senza che lo spettatore veda mai il loro interlocutore, quell’interlocutore che sarà destinato a morire; questa assenza e la mancanza di risposta alle loro parole è un presagio che trasforma quel saluto in un inconsapevole addio. La scena ha in sé un grande valore simbolico, tuttavia la fiction iniziale rimane a sé stante, poco amalgamata con il resto del documentario.
Il progetto di Thyssenkrupp Blues nasce invece sei mesi prima della tragedia torinese. I due registi, infatti, volevano realizzare un documentario sulla vita quotidiana degli operai e per farlo hanno scelto profeticamente di filmare e raccontare proprio la vita di un operaio della Thyssen, Carlo Marrapodi. Dopo il rogo nella fabbrica, il loro progetto è stato modificato e il documentario è diventato la testimonianza della disgregazione di un mondo, quello di Carlo, che è stato costretto, prima dalla cassa integrazione, poi dal tragico evento, a rinunciare alla sua vita a Torino e a tornare in Calabria, sua terra d’origine, per riuscire a sopravvivere. Purtroppo il film risente del cambiamento di prospettiva attuato in corso d’opera, e finisce per risultare eccessivamente confuso senza riuscire a chiarire sufficientemente il punto verso cui vuole approdare. I due documentari hanno comunque strappato grandi applausi anche e soprattutto per il loro valore morale e politico: riflettere su tutto questo non è solo importante, ma, a questo punto, davvero irrinunciabile.