La recensione di un film come Sut, del regista Semih Kaplanoglu, è un’incombenza che consegneresti direttamente nelle mani degli autori, perché soltanto coloro che lo hanno concepito potrebbero scriverne qualcosa di sensato. Il connubio tra il comfort delle poltrone della sala Grande e il flusso di silenzi che scorre sullo schermo può essere micidiale se si addizionano alla stanchezza denunciata dalle palpebre che cadono inesorabili sugli occhi dei giornalisti e accreditati, fiaccati dalla maratona filmica di questi giorni al Lido. Resistere, resistere, resistere: è l’imperativo interiore durante la visione. E non ingannino gli applausi finali, perché il regista era proprio lì in sala con cast al seguito: chi avrebbe avuto il coraggio che ebbe Fantozzi con la Corazzata Potemkin?
Un generoso e breve battimani sui titoli di coda e poi via veloci, a fumare una sigaretta post-proiezione riflettendo nel tentativo di raccapezzarti almeno po’. Proviamo. In effetti una linea narrativa c’è: un ragazzo sui vent’anni vive consegnando latte agli abitanti della campagna turca, ma il suo sogno è la poesia. Chiede a un professore-poeta la pubblicazione di una sua lirica su una rivista molto conosciuta. Richiesta accettata, poesia pubblicata. A casa vive con la madre, con la quale scambia due o tre parole al giorno (i silenzi che li separano sono restituiti quasi in tempo reale…). Nel tornare a casa anticipatamente rispetto al previsto scopre che la mamma copula con un uomo. Decide di seguire l’uomo durante una battuta di caccia per ucciderlo. Prende un masso per colpirlo ai bordi di un lago, ma si ferma poco prima perché folgorato dalla visione di un pesce-gatto sotto i suoi piedi. Rinuncia al proposito omicida e se ne torna a casa con il pesce tra le braccia.
Per il resto la sceneggiatura è caratterizzata da un’esasperata scarnificazione dei dialoghi, silenzi estenuanti, scene dal valore necessariamente simbolico ma che alla fine suonano come digressioni incomprensibili. Il tutto enfatizzato da una regia che privilegia le inquadrature fisse e lunghe, lunghissimi piano-sequenza. Una complessità di significato francamente eccessiva che si risolve in un linguaggio criptico, denso di soluzioni che disorientano. L’incipit ad esempio: una donna legata ad un albero per i piedi subisce un trattamento da parte di un uomo, il vapore del latte bollente (da qui il titolo Sut, che significa latte) le arriva in faccia finchè non le esce un serpente dalla bocca. La scena impressiona e ha forza espressiva, ma poi partono i titoli di testa e inizia un altro film. E a poco a poco ti accorgi che nonostante gli sforzi non se ne viene a capo, ti accorgi che avresti bisogno di una fantasia interpretativa francamente fuori portata per capire un film così nascosto.
Uno dei temi è l’incomunicabilità, ma ci si chiede: per trasmetterne il senso è necessario darne una rappresentazione così iperrealista? A proposito di incomunicabilità Dino Risi disse una volta che “qualcuno l’ha inventata per evitare di scrivere i dialoghi cinematografici, che è la cosa più difficile”. Il riferimento era ovviamente a Michelangelo Antonioni, ma se spostiamo tiro da oggi abbiamo il bersaglio giusto per questa bella citazione.
Complimenti Andrea per il coraggio e la schiettezza! E’ una delle recensioni più divertenti,simpatiche e leggere che abbia letto.