Takeshi Kitano torna al Lido. Per il regista giapponese la Mostra del cinema di Venezia rappresenta un appuntamento fisso: qui vinse il Leone d’oro per Hana-bi nel 1997 e il premio per la miglior regia con Zatoichi nel 2003. Dopo esservi tornato nel 2005 con Takeshis e nel 2006 con Glory to the filmaker, lo ritroviamo quest’anno in concorso con Akires to kame traduzione: “Achille e la tartaruga”. Nel ricevere un premio per mano di Kitano, Kiarostami ha detto di lui: “Con una mano ha fatto film violenti, con l’altra film poetici”.

Achille e la tartaruga e’ fuor d’ogni dubbio un film poetico: racconta la passione di un bambino, Machisu, nei confronti della pittura, passione che non lo abbandonerà mai malgrado gli ostacoli che continuamente si frappongono tra lui e e la sua attività di pittore.

I primi anni della sua vita trascorrono in una condizione di agio sociale. La sua famiglia è ricca, lui dipinge. Paesaggi, animali, ritratti. Quando la tragedia irrompe nella sua casa, Machisu rimane orfano e viene affidato a uno zio rancoroso e violento. La sua vita subisce un cambiamento radicale e lui reagisce nell’unico modo che conosce: dipinge. Cresce e inizia a frequentare il bizzarro mondo dell’Accademia dell’Arte. Entra in contatto con maldestri gruppi di avanguardia, ma non riesce ad affermarsi come pittore. Il critico, al quale mostra i suoi quadri, lo respinge in continuazione accusandolo di dipingere delle riproduzioni sullo stile di pittori celebri: Mirò, Picasso, Warhol. L’unica persona che sembra credere in lui è la donna che nel frattempo ha sposato e che lo affianca in ogni sua impresa artistica. Intanto invecchia e la sua passione si trasforma in un’insana ossessione. Ne viene assorbito totalmente, tanto da trascurare tutto il resto. I consigli del critico vengono presi alla lettera e Machisu inizia a esplorare linguaggi artistici che implicano violente prove su se stesso e sua moglie, ormai unica persona rimastagli fedele. Raggiunto limite oltre il quale non puo’ andare finalmente Machisu giunge ad una pacificata consapevolezza.

Akires to kame concede al maestro Kitano l’opportunità di raccontare uno dei tanti ambiti artistici da lui frequentato: quello appunto della pittura (i numerosi quadri presenti nel film sono del regista). Il film non vuole certo fornire un punto di vista sul concetto di arte nella societa’ contemporanea. Piuttosto focalizza lo sguardo sul rapporto intimo tra un uomo e la sua passione, una passione affatto sostenuta dal talento e praticata in modo compulsivo e innaturale, tesa unicamente alla ricerca del consenso a scapito dell’espressione di sè. La metafora di Achille e la tartaruga, presente come prologo del film attraverso un breve segmento animato, esprime il senso del film. Nel finale, Machisu stanco di rincorrere il proprio talento rincontra la moglie che lo aveva abbandonato dopo la morte della figlia e torna a casa con lei. Ed è con lei che si riappropria della sua vita. Ora ha finalmente raggiunto la tartaruga.

In due ore di film Kitano comprime un arco temporale di più di mezzo secolo, conservando una struttura lineare ma tripartita: nella prima parte, quella in cui seguiamo le vicende del bambino, la regia è stranamente calligrafica, un po’ convenzionale rispetto allo stile asciutto tipico del regista. Nella seconda parte, gli anni dell’accademia, torna il Kitano di sempre. Una regia ferma e rigorosa crea la tensione sulla quale si liberano, in alternanza, momenti di irresistibile comicità (il film è pieno di gag esilaranti) e di riflessioni amare. Ingredienti che Kitano sa maneggiare come pochi. Nella la terza parte il ruolo del protagonista è interpretato da Kitano stesso. L’incofondibile volto ruvido dall’espressione enigmatica ne ha fatto una maschera amatissima come ha dimostrato il pubblico di Venezia dedicandogli risate, partecipazione, e grandi applausi.

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