Dopo la delusione per il tedesco Jerichow e gli applausi per Kitano e Arriaga la sezione dei film in concorso presenta due pellicole che il pubblico di Venezia ha accolto tiepidamente. Si tratta di Dangkou (Plastic City) e del francese Inju, la bête dans l’ombre. Il primo, ambientato a San Paolo Brasile. Città livida e cupa, priva di regole o, peggio ancora, governata da sordide connivenze tra crimine e istituzioni. In questo spazio caotico e multietnico si muove abilmente Yuda, boss cinese e re delle merci contraffatte. La sua parabola comincia nel 1984 nella giungla, teatro di violente battaglie tra gruppi locali.
La prima inquadratura ritrae un cartello che suona minaccioso: “Qui comincia il Brasile”. Da qui comincia anche la sua ascesa criminale che lo condurrà alla costituzione di un impero a fianco del figlio adottivo Kirin, iroso e pericolosamente ambizioso, ma tanto fedele a Yuda da salvargli la vita in più di una circostanza. L’evoluzione della storia persegue la linea narrativa classica del gangster movie: l’ascesa senza controllo alla quale consegue la naturale e tragica caduta. I ranghi alti non sono contenti del regno asiatico, insediatosi nell’oscuro territorio brasiliano, così non resta altro che tendergli una trappola fatale che lo costringerà a poco a poco ad abdicare. Naturalmente Kirin tenterà di contrapporsi, ma il destino è ormai segnato e anche lui verrà inghiottito dalle fauci del nuovo potere politico/mafioso. Il film si conclude nella giungla, il luogo dove tutto era cominciato.
Nel raccontare la follia di un mondo inafferrabile, il regista tesse una trama a maglie fittissime con storie laterali che si intersecano continuamente e che corrono troppo veloci. Le acrobazie di una regia funambolica e esasperata, che si avvale della leggerezza della macchina digitale, determinano un andamento frenetico teso a produrre il senso di confusione vissuto dai personaggi. Il risultato è che a uscire perplessi dalla sala sono gli spettatori, gettati per due ore in un frullatore di immagini sgranate, di inquadrature mosse e di digressioni fuorvianti, che fanno della regia un invasivo strumento disturbante. Il finale (doppio? triplo?) viene stiracchiato finchè non si arriva ad agognarlo.
L’altro film in concorso, il francese Inju, la bête dans l’ombre, è un giallo in cui realtà e finzione si intrecciano implacabilmente. Il romanziere Alex Fayard si reca a Kioto, in Giappone, per presentare il suo nuovo romanzo, ma intimamente spera di incontrare il suo scrittore noir preferito Shundei Oe, il quale vive in una condizione di auto isolamento radicale che lo tiene lontano dai riflettori. Alex tenta di stanarlo provocandolo pubblicamente e scatenando l’ira di Oe. Quello che doveva essere un viaggio per conoscere il suo idolo si trasforma presto in un tragico incubo proprio da romanzo giallo, nel quale il protagonista Alex si ritrova a dover investigare sull’identità di Oe. Nella sua indagine mette in campo tutte le sue conoscenze di scrittore di libri gialli, ma non basteranno perché neanche la sua spiccata fantasia arriverebbe a concepire un finale così sorprendente.
Schroeder, navigato regista francese, mette in scena un godibile film di genere nel quale le indiscutibili tracce autoriali si risolvono in una sofisticata riflessione sul rapporto tra arte e vita. L’incipit del film lancia immediatamente il tema: la scena, dopo pochi minuti, inizia con il taglio della testa a una ragazza, l’uccisione di un’altra e il taglio della testa a un uomo (che rotola a fianco della sua amata appena uccisa, in una scena più grottesca che macabra) e immediatamente chiude con i titoli di coda seguiti dal rumoreggiare smarrito del pubblico in sala. Di seguito l’inquadratura si apre con un movimento panoramico che rivela l’espediente: il frammento di film che abbiamo visto è in realtà un finale di un film giapponese, adattamento cinematografico de La bestia immonda, libro celebre del grande scrittore Oe, che il professor Fayed sta mostrando ai suoi allievi per spiegare la concetto del male nei suoi romanzi. Un esempio di “film nel film” che introduce il tema di fondo di questo giallo che non resterà nella memoria della collettività festivaliera, ma che in centocinque minuti ha avuto il non trascurabile merito di non averci annoiato. L’attrice femminile (bella e brava) interpreta il personaggio al quale sono affidate le chiavi per svelare il mistero finale.