Questa tensione è insopportabile, speriamo che duri, diceva Oscar Wilde. Un sentimento appropriato per il nuovo lavoro di Jonathan Demme, nonostante il film tratti in buona sostanza ciò che il titolo promette, ovvero Rachel che si sposa. Il nodo è nella formula: non il matrimonio di Rachel come evento, ma Rachel getting married come contesto, come flusso temporale. L’idea è uno sguardo che si colloca poco sopra quello di un filmino di famiglia, interamente girato con macchina a mano incerta ed esplorante. Il soggetto è la famiglia di Rachel, e in particolare sua sorella Kym, la quale arriva al matrimonio direttamente da una clinica di disintossicazione dopo una vita di abusi e un peccato originale che ne segna il destino.
Tornando alla fiction come intervallo tra un documentario e l’altro, Demme riparte da un linguaggio molto più vicino al suo lavoro su Jimmy Carter Man from Plains piuttosto che al remake di The Manchurian Candidate di quattro anni fa. Il desiderio di evitare la messa in scena da dramma classico incontra dunque una rinnovata sensibilità per il vero, o presunto tale, producendo una storia che fa della sua nuda compattezza una delle caratteristiche principali. La scelta è di affidarsi all’improvvisazione, sia registica che attoriale, e al ruolo fondamentale della musica che è sempre diegetica e addirittura presente sullo schermo nella sua realizzazione: i musicisti del film sono nel film per il matrimonio, e oltre a dar vita ad alcune scene in cui i due piani si intersecano (durante una lite un personaggio si ferma e chiede loro di smettere di suonare), contribuisce alla suddetta compattezza del quadro generale.
Demme guarda a Altman, ma si avvicina alle dinamiche parentali con occhio molto personale; l’elemento di maggior caratterizzazione del film è lo sguardo d’insieme, e dall’interno, sull’acquario del raduno familiare. Non c’è scampo, non c’è via d’uscita al senso di tensione che si crea. La pressione è fortissima e corre tra i poli della perfezione del matrimonio e l’abisso di una famiglia che deve fare i conti con se stessa. Si noti ad esempio il risultato raggiunto dalla scena imperniata su una lavastoviglie (!), e come Demme riesca a ingigantire un senso di imminente catastrofe lavorando sulle fondamenta della domesticità.
Le decorazioni, la musica, la festa e una capillare galleria di personaggi di contorno e parenti acquisiti (grande attenzione al multiculturalismo) sono una gabbia e al tempo stesso una speranza, ma il corto circuito tra gli elementi è dietro l’angolo. La sceneggiatura di Jenny Lumet (figlia di Sidney) “sulla famiglia e altre questioni importanti” abbozza personaggi pieni di difetti, colti nel momento in cui non possono più rinunciare al confronto dialettico, e costretti a mostrarsi nelle piccole meschinità che sono di tutti e si acuiscono in contesti del genere.
Dopo aver visto un Arriaga (The Burning Plain) dalla prosa un po’ troppo manipolatoria e consolante, è lecito e doveroso porsi le stesse domande sull’operato di Demme. Alcune scelte nella seconda parte del film possono indurre medesime perplessità, ma non sembra in fondo mancanza di coraggio, quella dell’autore de Il silenzio degli innocenti: è piuttosto un abbracciare l’ambiguità delle sue stesse premesse, conservare intatta l’energia potenziale invece di liberarla fragorosamente come fa Arriaga per poi raccoglierne i pezzi. Con Rachel getting married Demme include la fiction nella sua recente filmografia senza farla apparire apocrifa.
un film meraviglioso!