Il cinema è fatto soprattutto di idee, quelle che da queste parti ci piace definire urgenze, avere qualcosa da raccontare e sentire l’irrefrenabile necessità di renderne partecipi altre persone. Delle belle idee stanno alla base di tre film italiani presentati alla Mostra: Pranzo di ferragosto di Gianni Di Gregorio, Il primo giorno d’inverno di Mirko Locatelli e Un altro pianeta di Stefano Tummolini. Tuttavia spesso le idee, da sole, non bastano altrettanto importante diventano allora il modo e la capacità di dire, di raccontare, di trasformare quelle idee in storie che “reggano” e che consentano di apprezzare il film stesso. Nel caso dei tre film in questione, possiamo senza dubbio affermare che in qualche caso l’idea ha avuto un buon esito, e in qualche altro si è persa, e non sempre si è ritrovata, in una sceneggiatura esile e talvolta confusa.
Presentato nella Settimana della critica, Pranzo di ferragosto è diventato il vero caso di questa Mostra, l’unico per il quale sia stata organizzata una proiezione straordinaria. Ha avuto l’occhio lungo Matteo Garrone che ha deciso di produrre il film di uno dei suoi più fidati sceneggiatori fin dai tempi di Estate Romana, quel Gianni Di Gregorio che ha saputo costruire un film godibile e apprezzatissimo da critica e pubblico, forse anche perché, finalmente, dopo tutte le tragedie dei film italiani in concorso, ci troviamo di fronte a un film leggero, ma non banale, in cui si ride, e tanto. E stupisce che tanta leggerezza provenga dalle quattro pimpanti vecchiette protagoniste che, manco a dirlo, sfilando sul red carpet sono state più ammirate dei divi hollywoodiani (quest’anno in vera penuria). Partendo da un’idea semplice, e scritta benissimo, il neoregista ha preso spunto da una vicenda semi-autobiografica per dare vita ad una commedia nella quale, tra un’esilarante risata e l’altra, non manca di far riflettere sul delicato tema della vecchiaia fatta di solitudini, ma anche di inaspettata solidarietà e spirito di gruppo. Gianni, scapolo, vive con l’anziana e vispa madre a cui si dedica con totale dedizione; a ferragosto per una fortuita serie di coincidenze la sua casa sarà invasa da altre tre simpatiche vecchiette, mollate lì da familiari troppo presi dalla propria vita. Gianni si troverà così costretto a gestire un gruppo molto poco disciplinato, tra rivalità, amicizie, simpatie e soprattutto tanta voglia di vivere, di una vitalità contagiosa e irresistibile. Uno dei maggiori pregi del film è sicuramente il suo rimanere negli argini, sia nella sceneggiatura, quanto nei tempi: se fosse durato più dei suoi settantacinque minuti forse avrebbe iniziato a scricchiolare.
Non è il caso di Mirko Locatelli, purtroppo, regista de Il primo giorno d’inverno, presentato nella sezione Orizzonti, che invece si è spinto oltre e ha annacquato in un’ora e mezza una storia che, fosse stata raccontata in un corto, sarebbe stata perfetta. Come ha dichiarato lo stesso regista “il film racconta una storia di bullismo e identità sessuale in adolescenza: il bullismo meno visibile, quello che non agisce esclusivamente perpetrando violenza fisica ma che si manifesta attraverso altre forme di prepotenza che determinano l’esclusione dal gruppo e l’emarginazione di chi è considerato diverso.” Il regista affronta questo delicato tema attraverso la storia di Valerio, un ragazzo solitario, preso in giro da due compagni del nuoto dai quali si sente tuttavia ambiguamente affascinato perché rappresentano quella normalità a cui lui sente di non appartenere. Valerio li osserva da lontano, li scruta, li spia, fino al momento in cui quell’apparente normalità viene annullata di colpo quando, non visto, li sorprende a fare sesso nella palestra della scuola. Da quel momento inizierà a ricattarli per riscattare tutte le prese in giro passate, illudendosi, in questo modo, di avere un motivo per sentirsi parte di un mondo da cui era rimasto sempre escluso; ma purtroppo tutto precipiterà verso un tragico epilogo. Il regista ambienta questa storia nella spenta periferia lombarda, dove ogni cosa ha un sapore retrò, dal motorino a pedali di Valerio al giradischi anni Ottanta della sorella, e malinconico, come le ambientazioni, sia degli interni che degli esterni o il rituale della cena in famiglia che si ripete sempre uguale a scandire il grigiore e la monotonia della vita dei protagonisti. Un tema delicato, un’idea molto interessante che, come accennato prima, il regista sembra disperdere tra scene superflue e ripetizioni che, per quanto funzionali, costringono spesso alla noia.
Un altro pianeta di Stefano Tummolini, presentato nelle Giornate degli Autori, è la testimonianza che si possono realizzare prodotti interessanti anche quando i mezzi sono scarsissimi. E in questo caso lo sono stati davvero: girato in soli sei giorni, senza una vera e propria troupe, con una telecamerina digitale, il film presenta degli spunti interessanti, anche se spesso le idee sembrano disperdersi in una sceneggiatura non tanto esile, pur nella semplicità della trama, quanto confusa, con ripetizioni e andirivieni narrativi che lasciano un po’ perplessi e dialoghi talvolta banali, che in qualche caso sfiorano la trivitalità gratuita. Ambientato sulla spiaggia gay di Capocotta, vicino Roma, Un altro pianeta è il racconto di una giornata al mare che segna l’incontro di Salvatore, ragazzo gay napoletano, con tre ragazze e due loro amici, uno dei quali si invaghirà proprio di Salvatore. Attraverso l’incontro con l’altro, che avrà risvolti imprevedibili, alla fine della giornata i protagonisti saranno costretti a fare i conti con la propria vita e il proprio passato e “a gettare la maschera, rivelando cosa si nasconde dietro la scorza dura dell’apparire”, per usare le parole del regista. L’omosessualità di Un altro pianeta, con la sua prepotenza fisica, la sua capacità di scendere negli abissi della carnalità e, contemporaneamente, di divenire eterea e poetica, è trattata in maniera diametralmente opposta a quella del film di Locatelli nel quale la relazione tra i due ragazzi è maggiormente legata alla scoperta dell’altro da sé, nel passaggio dall’adolescenza all’età adulta. L’idea c’è anche se in un prodotto ancora un po’ grezzo che avrebbe necessitato di qualche limatura in più.
Per concludere oggi al Lido c’è stato il gran giorno di Adriano Celentano e del suo restaurato Yuppi Du e, in concorso, del film di Kathryn Bigelow Hurtlocker, un film durissimo, girato in maniera magistrale, che denuncia la totale assuefazione dei soldati americani in Iraq (o in qualsiasi altro posto) all’adrenalina della guerra, che rende impossibile il ritorno ad una vita normale.