Splende il colore della fotografia in Technicolor di Carlo Di Palma in entrambe le commedie di Vittorio Caprioli, scelte dalla retrospettiva per celebrare l’altra ironia degli anni Sessanta. Un cinema meno popolare di quello di Risi e Monicelli, lontano dalle parodie grottesche di Totò, di Franco e di Ciccio, lontano dal cinismo del primo Fellini, dalle satire acide di Luciano Salce o Nanni Loy, ma anche dalla buona semplicità dei Comencini. Le prime due prove da regista dell’ottimo attore drammatico Caprioli (il partigiano Banchelli de Il Generale della Rovere) sono occhiate sagge e brillanti gettate su un paio di contesti disparati e non complementari: leoni della borghesia napoletana nullafacenti nel sole di Positano e emigrati italiani nella periferia parigina.
Leoni al sole (1961), esordio alla regia per Caprioli, tratto dal racconto Ferito a morte di Raffaele La Capria, è storicamente catalogato dalla critica come una sorta di “vitelloni” della costa campana, meno assillati dei coetanei romagnoli dalle responsabilitá imminenti dell’età adulta e più preoccupati del come spassarsela, del come “guastare” e del come farla franca. Non sono dei cialtroni, sono anzi dei veri finti aristocratici che si fanno chiamare Giugiù, Mimì, Sciosciò, che vivono della “paghetta del papi” e che prendono in considerazione l’ipotesi di iscriversi al PCI al solo scopo di evitare un visto per l’America, dove li attenderebbe un sicuro impiego. Ruolo da protagonista per Vittorio Caprioli e parte minore per Franca Valeri, ingabbiata nella figura della milanese produttiva (quale è, per nostra fortuna) estranea eppure rapita dalla spensierata vitalità del gruppo.
Ruoli invertiti in Parigi o cara (1962), opera seconda costruita su misura per l’istrionica Valeri, al tempo moglie del regista e compagna di strada di Caprioli anche nell’avventura del Teatro dei Gobbi, fondato dai due insieme all’amico Alberto Bonucci. Il personaggio di Delia ha la paranoia della rispettabilità delle signore piccolo borghesi, delle quali possiede anche il gusto che esibisce in divertentissimo monologo/canto sugli orrori dei nuovi quartieri delle periferie romane (da segnalare l’ennesimo ritratto cinematografico dell’ EUR); ma di mestiere fa la prostituta, e forse anche la strozzina, senza però trattenere tracce di aggressività o abbrutimento. È invece una femmina allegra, “svampita”, senza vocazione di madre e di moglie, antierotica e fatale solo per se stessa. La Parigi del titolo è la città dove Delia ripara per tagliare con “la vita”, dove ritrova il fratello gay e incontra il pizzaiolo Avallone (Vittorio Caprioli con una piccola parte nel sottofinale) con il quale tornerà a Roma per gestire un ristorante a Monte Mario e, forse, per sposarsi. La Valeri, che esordì nel cinema con Luci del varietà di Fellini e Lattuada (1950) e che i francesi chiamano Valerì come il poeta da cui prese il nome d’arte, crea per questa commedia un personaggio a metà tra la sora Cesira del radiofonico Il rosso e il nero e la Cabiria di Fellini, una donna sveglia, ma votata all’illusione, un misto di ingenuità e di sagacia.
Entrambi i film, i primi di sette lungometraggi girati da Caprioli tra il 1961 e il 1982, sono lavori privi di ammiccamenti di qualsiasi tipo allo spettatore, soprattutto sessuali e malgrado i loro contenuti. Come da buona educazione teatrale, non vivono di gratuità o concessioni, non contengono battute roboanti bensì allusioni con il pregio, secondo qualcuno, di risultare veramente godibili solo se seguiti con attenta partecipazione.