“La guerra è una droga”, dà dipendenza. Kathryn Bigelow riprende così, a inizio film, la frase di un giornalista che vinse il Pulitzer con uno scritto sulla psicologia della guerra. Poi parte il film, con la macchina da presa attaccata ai corpi e una fotografia notevole. “Questo non è un film sulle conseguenze della guerra, non mostra il ‘prima’ né il ‘dopo’, mostra cosa accade lì, sul campo”, ha detto Mark Boal, ex reporter in Iraq e sceneggiatore di The Hurt Locker. Nascono così due ore di adrenalina e un cinema di guerra che racconta come vive e lavora a Bagdad una squadra di soldati specializzati nel disinnescare bombe.
Ispirato al resoconto di Boal, il film è asciutto, rigoroso, attento a ricostruire ogni particolare – dalle tute dei soldati ai mezzi di trasporto, addirittura le comparse irachene del film sono davvero ex prigionieri iracheni. Bravissima nello scegliere e dirigere attori e da sempre a proprio agio con un cinema “al maschile” la Bigelow continua comunque a spiazzare: ingaggia attori come Guy Pearce e Ralph Fiennes e poi fa morire il primo a pochi minuti dall’inizio del film e relega il secondo a una scena di una manciata di minuti riuscendo a rendere affascinanti attori poco noti come Jeremy Renner, Brian Geraghty, Antony Mackie; si cimenta in un war movie, ma il nemico fisico – a parte le bombe – è un dettaglio. Bagdad non è il Vietnam e i marines sono dei volontari.
Alla Bigelow, come sempre, interessa scandagliare la psiche di uomini irresistibilmente attratti da azioni estreme, dall’adrenlina, dal rischio. Il sergente William James non potrebbe fare altro, nella propria vita. E, proprio come il Bodhi di Point Break dopo essersi inoltrato nel tratto buio della propria vita, sceglie di rimanerci, nell’abisso, fino alla prossima bomba, finchè non salterà irrimediabilmente in aria. In questa terra di nessuno in cui il confronto con l’altro è in realtà speculare a quello con se stessi, le proprie pulsioni e i propri desideri, il nemico può essere chiunque: il compagno di squadra, gli iracheni, il bambino che fino a poco fa era un compagno di giochi.
Se da un lato la regista indaga alcuni dei temi che da sempre le sono cari come la fascinazione della violenza, il sondare nuovi punti di rottura, il permettere una quasi totale identificazione tra personaggio e spettatore, dall’altro The Hurt Locker affronta in modo più esplicito del solito il sentimento della paura. Paura dell’eventualità della morte, paura di scomparire nel nulla senza lasciare una traccia di sé nel mondo. “La paura è chiarificatrice – ha detto la regista – ti obbliga a mettere davanti le cose importanti e a tralasciare quelle insignificanti“. La paura permetterà a qualcuno, nel film, di scegliere forse altro.