“Cosby, Belafonte, Carter, più invecchiano, più diventano energici, aggressivi”
un ammiratore
“C’è una sola cosa vera nel libro di Carter… le critiche”
un detrattore
Anno 1979. Al Tonight Show condotto da Johnny Carson, pioniere incontrastato della programmazione televisiva notturna made in Usa, è ospite Lillian Carter, mamma del 39° presidente degli Stati Uniti, in carica dal 1977 al 1981 e futuro premio nobel per la pace. In quelle storiche immagini di repertorio della televisione stelle-strisce sembra quasi che Jimmy si sia travestito da donna, tanta è la somiglianza tra madre e figlio. Lillian, di un’allegria contagiosa, duetta con Carson, sfoggiando quel genuino senso dell’umorismo sudista che costituirà poi uno dei tratti peculiari del carattere sfaccettato del futuro presidente.
E’ il preambolo al documentario Man from Plains di Jonathan Demme – regista uscito dalla talentuosa schiera della factory produttiva di Roger Corman, assieme a Scorsese, Nicholson, Bartel tra gli altri, premio oscar nel 1991 con Silence of the Lambs – che segue Jimmy Carter – all’anagrafe James Earl Carter Jr, ex presidente americano democratico prima della devastazione culturale dell’era reaganiana, durante il recente tour promozionale del suo libro-scandalo (in fondo cosa c’è di più scandaloso della realtà?): Palestine: Peace, Not Apartheid, un trattato sulla condizione di segregazione dei palestinesi nei territori occupati dagli israeliani.
Nel 1978, durante il suo mandato presidenziale, Carter, da sempre esperto e appassionato di politica estera e tenace sostenitore dei negoziati di pace, mette a segno uno storico risultato: interponendosi come mediatore tra Egitto e Israele rende possibile la firma degli accordi di Camp David che garantiranno una pace duratura tra i due paesi. Dopo aver lasciato la politica attiva, fonda l’organizzazione no-profit "Carter Center" per promuovere la pace e i diritti umani nel mondo. Tutto l’impegno e le capacità dimostrate, pur valendogli il Nobel nel 2002, non lo risparmieranno però dalle continue, sprezzanti critiche da parte della stampa americana, anche liberal, che non gli ha mai perdonato un certo naturale atteggiamento anti-establishment e post-ideologico, fatto di schietto buonsenso contadino, senso pratico e umanesimo etico con cui il popolo americano avrebbe potuto facilmente e pericolosamente identificarsi.
La provocazione del libro di Carter comincia fin dal titolo, quel termine di apartheid che, riecheggiando il sistema di segregazione razzista e nazistoide del Sudafrica pre-Mandela, viene considerato da molti opinionisti ingiusto e offensivo. Nel corso del tour l’ex presidente si confronta con giornalisti e commentatori dei vari networks
radio-televisivi che lo bersagliano di opinioni critiche e insinuazioni. L’intento mal celato è di mettere in dubbio soprattutto la sua onestà intellettuale. In sostanza si accusa Carter di essere di parte, di non tenere in sufficiente considerazione le ragioni di sicurezza dello stato di Israele, la minaccia sempre sbandierata del terrorismo kamikaze palestinese in territorio israeliano, che avrebbe giustificato l’edificazione del famigerato muro che ormai incapsula completamente i palestinesi della West Bank.
Quel che colpisce è la limpidezza delle argomentazioni dell’ex presidente che si coniuga a un’infaticabile tenacia nel ribattere alle critiche degli avversari. Carter corregge le inesattezze dei suoi intervistatori svelandone talvolta la faziosità, puntualizza, adduce ragioni, cita meticoloso dati e cifre riscaldandole con il racconto di esperienze personali sul campo. Dimostrando nervi saldi nonostante le pesanti provocazioni riesce a non perdere mai le staffe nella disputa. Sembra anzi ravvivarsi, trarre giovamento dal confronto con un avversario che non è percepito mai come un nemico da abbattere, ma come un interlocutore da persuadere. Per far comprendere lo stato d’animo palestinese porta l’esempio dei suoi terreni, in Georgia, coltivati a ulivi e arachidi e destinati a pascolo delle pecore, appartenuti alla sua familgia da centosettanta anni: “Come mi sentirei se degli stranieri venissero nella mia terra e tagliassero gli ulivi con una motosega ?” Carter ci tiene a specificare che il suo libro riguarda la Palestina dei territori occupati e non lo stato di Israele – la cui democraticità non mette mai in discussione – sostenendo che l’apartheid in Cisgiordania non si basa sul razzismo ma sulla volontà di una minoranza di israeliani di colonizzare i territori palestinesi. In quest’ottica, il muro, lungi da difendere Israele dagli attacchi – “E’ alto 4 metri e non può proteggere certo da attacchi di missili e lancio di mortai” – serve solo per prendersi la terra.
Carter è cosciente del fatto che non esiste obiettività nei media americani ed è probabile che la maggior parte di quei presunti esperti e opinionisti il libro non l’abbia neanche mai aperto; ecco che allora l’invito rivolto ai giornalisti e attraverso di loro al pubblico televisivo, è quello di non accontentarsi di surrogati di informazione ma di cercare per quanto possibile di andare a vedere con i propri occhi prima di emettere un giudizio. Un appello che, nella maggior dei casi ha l’effetto di spuntare le armi avversarie, svelando spesso, dietro il pregiudizio ideologico dei suoi detrattori, l’ignoranza delle reali condizioni di fatto prese in esame.
Carter non si sottrae mai al confronto, accetta di essere intervistato dalla televisione israeliana e smonta una ad una gli argomenti incalzanti, i sofismi e le trappole tese dall’intervistatore, visibilmente contrariato, confidando più tardi alla sua collaboratrice: "Spero non la taglino troppo (l’intervista n.d.r.), quel che può far danni è il montaggio”.
Il confronto più difficile tuttavia, più ancora che con una congrega di arrabbiatissimi rabbini di Phoenix – che lo invitano a incontrarsi ma poi non vogliono che i loro volti siano riconoscibili, né che i loro commenti vengano inseriti nel documentario – si svolge in un'aula universitaria gremita di studenti, molti dei quali ebrei, che lo incalzano con domande pungenti, sebbene molto più pertinenti di quelle dei giornalisti. Loro, capiamo, il libro lo hanno letto davvero e Carter per premiarli, sfodera il meglio delle sue capacità di comunicatore, ottenendo alla fine il rispetto di tutta la platea con un lungo applauso che sembra sciogliere la tensione.
Demme, da sempre convinto ammiratore di Carter, ha preso il suo lavoro molto seriamente: si è fatto garantire che la troupe avrebbe potuto girare liberamente e seguire per intero la giornata piena d’impegni dell’infaticabile presidente e del suo staff. Ha preteso che nessun’altro tranne il regista stesso avrebbe potuto decidere qu
ali riprese utilizzare e quali escludere in fase di montaggio. Ha girato simultaneamente con piccole telecamere HD, una delle quali imbracciata personalmente, di modo che non potesse sfuggire nulla. In montaggio, il documentario si è arricchito di storiche immagini di repertorio dell’epoca del mandato presidenziale: Camp David, Corea, Cuba, zone di crisi e di conflitti ideologici in cui l’ex presidente non ha mai rinunciato a recarsi, perseguendo con ostinazione la via diplomatica del negoziato. Un interventismo di pace ispirato nel caso di Carter da uno spirito autenticamente religioso che ha segnato per una breve fase la politica estera americana, prima che un cowboy di mezza tacca, un mediocre comprimario di Hollywood che ai tempi di McCarthy si distingueva come compiaciuto delatore di “rossi”, decidesse di montare in sella al suo ronzino per condurre l’America e il mondo verso le glorie del neoliberismo, delle guerre preventive e permanenti, della catastrofe ambientale.