Il manicomio, il riformatorio, il mare. Prima ancora che le storie e i volti raccontati dentro tre delle più complesse, impegnative e suggestive pellicole italiane proiettate sugli schermi veneziani, contano i luoghi dove quelle storie e quei volti sono calati, immersi, perché sono i luoghi a rivelare nella loro ora spoglia, ora disperata, ora tragica realtà materiale, l’identità di mondi rimossi e arcaici. La pecora nera di Ascanio Celestini, L’amore buio di Antonio Capuano e I Malavoglia di Pasquale Scimeca sono opere attraversate da una forza arcaica, barbara, viscerale dove il mondo moderno e civilizzato è tenuto fuori, incapace di comprendere e di farsi comprendere. Non potremo dimenticare facilmente l’espressione prima attonita, poi imbarazzata e poi ancora turbata di Maya Sansa messa davanti alla richiesta del folle “romantico” Celestini: “Ti posso leccare?”, una dichiarazione “d’amore” rivolta alla bambina idealizzata nel ricordo infantile del gioco e della complicità e non alla donna ritrovata eppure ancorata al sogno, all’illusione, con cui non si ha più un linguaggio corporeo e verbale da condividere. Un momento in cui la materialità del manicomio acquista il valore definitivo e invalicabile di una prigione esistenziale di impotenza e solitudine e il Celestino regista abbandona il Celestino personaggio in mezzo all’inquadratura, regalandogli attraverso questa aperturachiusura verso l’esterno un carico di dolorosa consapevolezza in più anche rispetto al soliloquio mentale che era il fulcro del monologo teatrale.
L’amore buio ci dona un altro frammento di cinema che afffonda e spiazza, lì dove non arrivano più neanche le parole: lo sguardo muto che si scambiano Luisa Ranieri, madre dell’agiata borghesia napoletana, e la figlia Irene davanti al portacenere proveniente dal laboratorio di ceramica di un riformatorio e il cui artefice e mittente è Ciro, uno dei ragazzi della banda che aveva aggredito e violentato la ragazza e che, con quel gesto, esprime il bisogno di essere perdonato, compreso, ascoltato. Ciò che non sa la madre è che dietro quell’oggetto c’è un carteggio epistolare tra Irene e Ciro, un percorso che ha permesso ad Irene di andare oltre lo smarrimento del trauma e il dolore della rabbia, arrivando al recupero di se stessa prima e dell’altro, nella sua accezione più estrema e radicale. Di fronte ad una maturazione così personale, intima, incondivisibile con il mondo esterno, la madre non può che trasformare il suo sguardo sconvolto e confuso in una rassegnata accettazione, un’altra forma di impotenza: l’estraneità verso un sentimento di diversità e di inquietudine che rende Irene più vicina ad uno dei suoi carnefici che alla sua stessa carne. Si tratta di un punto di non ritorno di un film per alcuni versi irrisolto, ma dove Capuano si è calato, come al solito, nell’antro più profondo della psiche dei suoi personaggi, rispettandone a tal punto l’imperscrutabilità e il “mistero”, da rendere estraneo anche lo spettatore che con fatica vorrebbe entrare in empatia.
Lo scontro arcaicitàmodernità si pone in una forma più netta nella robusta semplicità di linguaggio di Pasquale Scimeca in quel montaggio di campicontrocampi tra la famiglia Malavoglia, calata nell’attualità multietnica della Sicilia contemporanea, e i funzionari di banca a cui vanno a chiedere un prestito per tenere in vita il più arcaico ed “epico” dei sogni, quello del mare e della barca, due segni di un’identità di un popolo di pescatori che vi rimane attaccato con caparbia volontà. Una perseveranza travolta da scossoni e da fratture. Il rispetto dello spirito verghiano di raccontare la resistenza dei vinti contro una natura ora ostile, ora generosa. E anche nell’innesto ironico, il giovane nipote che campiona i proverbi del nonno per farne una canzone hip-hop, quello che resta nella memoria, ripetuto più volte nel finale è “Rispetta quello che dicono i vecchi”, idea che Scimeca esprime nella sua scrittura registica di trasparente classicità, attenta alla tradizione, aperta al folklore, con l’archetipo del romanzo verista in funzione di un nuovo neorealismo.
Ciò che tende a distinguere questi film così fisici e insieme così astratti, che parlano una lingua al tempo stesso estremamente reale, quotidiana, vicina e impalpabile, sfuggente, segreta è la febbricitante necessità personale, o meglio orgogliosamente autoriale, che li anima e che non può essere ridotta all’imperativo etico e sociale di dover raccontare manicomi, carcere minorile e precariato professionale nel Sud Italia.
C’è la necessità di fare cinema. Nel caso di Celestini di elaborare un terzo linguaggio tra la scrittura ed il teatro, dimostrando di aver assorbito la lezione del cinema di Pier Paolo Pasolini nel trasfigurare ciò che è orribile e indecente in qualcosa che può essere pieno di pietà, di umanità, di dignità. In Capuano il desiderio di perseguire la strada indicata da Rossellini, fare un cinema di emozioni allo stato puro, senza le mediazioni delle strutture drammaturgiche tradizionali, un poema visivo che richiede attenzione e disponibilità a un altro livello di comprensione. Scimeca cerca di mantenere viva, come i Malavoglia con la loro barca, la tradizione del cinema civile calato nella complessità della società, ma depurato da quell’alone di perbenismo ideologico da fiction televisiva, quel forzare e piegare le ragioni dell’estetica e del racconto al messaggio politicamente corretto.
E la reazione nei confronti di questi diversissimi autori che continuano a porre la questione estetica ed etica all’interno del nostro cinema può essere solo di gratitudine, con un augurio: che la marginalità diventi sempre più il centro del nostro sguardo.