[*1/2] – Possono bastare nobili temi e un aggancio al presente come fondamenta per fare di un film un grande film? Venus Noire, film del regista francese di origini tunisine Abdel Kechiche, e già vincitore morale del Leone d’Oro a Venezia 64 con Cous Cous, appare come un’opera monca che non raggiunge le sue ambizioni.
Quello che vediamo rappresentato sullo schermo è la vera storia di Saartjie, una donna originaria del Sudafrica, che assieme a Caezar, persona presso la quale Saartijie lavorava come domestica, sbarca in Inghilterra nel 1810 per diventare la venere ottentotta, fenomeno da baraccone che incarna agli occhi degli spettatori tutti gli stereotipi del selvaggio e che diverrà successivamente attrazione dei salotti bene e libertini di Parigi, oggetto d’interesse degli scienziati per via dei suoi enormi genitali e prostituta in un bordello, prima di morire, forse di sifilide, prematuramente.
Kechiche realizza un’opera molto ambiziosa su una vicenda che vorrebbe assurgere a storia esemplare di razzismo, sessismo, sfruttamento. Per farlo dà prevalenza ai fatti in macroscene dilatate che durano il tempo di un’intera esibizione da baraccone o un lungo segmento di un festino lussurioso con seni al vento e falli. Troppo preoccupato e ossequioso nei confronti della storia raccontata e del soggetto protagonista, Kechiche gira con mano intimorita, eccessivamente misurata, forse troppo attento a non cadere negli innumerovoli rischi che una simile operazione avrebbe potuto comportare. Il suo stile con macchina da presa ossessivamente incollata ai personaggi è ben presente anche qui, ma quello che manca è uno squarcio non razionale (psicologico? sentimentale?) sul mistero che è stata Saartjie Baartman, donna che sembra aver accettato, pur sofferente, la sua condizione, senza ribellioni e denuncie neanche quando ne avrebbe avuta l’occasione.
Per il regista gli psicologismi inquinano la comprensione della persona, mentre i fatti, le immagini, sarebbero maggiormente esplicativi. Sembra però fin troppo ingenua la pretesa di far parlare i fatti quando in un film a parlare sono sempre e solo le tante verità che si celano dietro allo sguardo di una rappresentazione, in questo caso evirata e con una reticenza che, pur nobile, porta verso un risultato esile, non incisivo e con poca anima.
Sotto questo punto di vista alcuni elementi aprono una vistosa crepa dinanzi al rigore morale che Kechiche vorrebbe adottare: le lacrime della protagonista che arrestano i giochi divertiti e le molestie degli astanti sul suo corpo; lo stupore degli stessi salotti altolocati di fronte ad una Venere Nera capace di cantare e suonare uno strumento con discreto orecchio musicale. C’era davvero bisogno di un riscatto artistico della protagonista o di marcare che Saartjie Baartman possedeva le potenzialità per veicolare un’apertura verso una cultura altra?
Ma gli intenti di Venus Noire non si esauriscono perché, nel mostrarci integralmente gli spettacoli del fenomeno Saartijie (con tempi lunghi quanto un’intero spettacolo e con l’occhio della camera morbosamente vicina quanto gli occhi degli spettatori dell’epoca) si aggiunge alla pellicola la riflessione sullo sguardo, il voyeurismo, l’occhio che opprime, che genera rapporti di potere. Per Kechiche i nostri sono gli stessi occhi di quegli scienziati e spettatori dell’epoca famelicamente smaniosi di toccare con mano ciò che con il loro sguardo hanno trasformato affidandogli un ruolo: di cavia, di bestia, di puttana…e di emblema, perché questo è il nuovo ruolo che Kechiche le affida, personaggio che potrebbe essere il rappresentante di tutti i freaks e gli elephant man. Ma il suggerimento, nell’insieme dell’operazione, non graffia. Venus Noire resta distante, freddo, non vibra, passa senza lasciare alcunché, salvo un insieme di buone intenzioni non cullate, ammirevoli propositi e potenziali che non sbocciano.