Perchè sì |
Perchè no |
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di Marino Galdiero
Tutto sta nel capire cosa uno si aspetta dal cinema, a quel punto decide se andare a vedere l’ultimo capolavoro di Francis Ford Coppola o ripiegare invece verso qualcosa di “carino”. La strada da prendere può essere dunque quella delle risposte consolanti, dei prevedibili passaggi narrativi, delle immagini che descrivono l’esistente e confermano con palese certezza una rappresentazione del mondo così come appare. Ecco, se vi avviate verso questa strada Un’altra giovinezza non è il film per voi. Dovranno almeno passare vent’anni prima che riusciate a vederlo. Ci vorranno mille e mille occhi dilatati sopra la sua bellezza prima che una versione digeribile venga tradotta dagli scribi della critica. La stessa sorte capitò ad Apocalypse Now, inizialmente suscitò in gran parte delle persone – era il 1979 – un’attenzione timida, solo dopo ha preso il posto che meritava nella storia del cinema mondiale. Altrimenti si può imboccare un’altra strada: tentare di intraprendere lo stesso percorso mentale e creativo di chi ha realizzato Un’altra giovinezza. Viaggio incerto e con qualche pericolo che rilascia però alla fine qualche piccola perla di soddisfazione, frutto di una partecipazione attiva a quanto vediamo sullo schermo. Questa è l’opportunità che offre Coppola e per usare le parole dello stesso regista: “Fare un film è come fare una domanda, e quando hai finito, la risposta è il film”. Non sembri particolarmente difficile questo navigare tra le ombre delle immagini, lo è solo nella misura in cui qualsiasi piacere profondo richiede uno sforzo, una fatica che ti permette di accedere verso una ulteriore conoscenza. Magari non basta una sola visione. In questa circostanza l’atteggiamento migliore è infatti quello di considerare la straniante fiaba crepuscolare interpretata da Tim Roth, nei panni del professor Dimitri Matei, autorevole studioso del linguaggio, come un libro da poter rileggere, dover poter tornare indietro nelle pagine (quello che permette oggi il supporto di dvd e che un tempo erano le ulteriori visioni in sala). Tuttavia, pur essendo un film fuori dalla norma, privo inoltre di condizionamenti produttivi e commerciali esterni tanto da far dichiarare all’autore di esser tornato alla giovinezza, di sentirsi appena uscito dalla scuola di cinema, non tralascia di mettere dei chiari segnali che qualsiasi essere umano con degli occhi e delle orecchie può cogliere. Sottolineo l’importanza dei sensi perché è un film dove conta la combinazione percettiva che si fa metafora sullo schermo. Ma per restare nella concretezza possiamo dire che la domanda che percorre la trama è molto semplice: è più importante l’amore o la conoscenza? Col professor Dimitri-Roth che a favore delle sue ricerche sull’origine del linguaggio trascura la donna della sua vita, arrivando infine sull’orlo del suicidio se gli dei non gli dessero un’altra possibilità. Sì, torna giovane. Pare di assistere a un episodio di Ai confini della realtà, al tempo stesso ad una vicenda romantica. Non solo: il ritorno alla giovinezza del protagonista suscita l’interesse degli scienziati nazisti (l’ambientazione corre tra il 1938 e il 1956) che vorrebbero carpire il segreto a scopi eugenetici, quindi c’è anche un elemento thriller. Insomma si tratta di un cinema di poesia che si compone di immagini evidenti senza troppo preoccuparsi della stretta coerenza narrativa. Non mancano riferimenti alla filosofia indiana, dopotutto la storia è tratta da un romanzo del grande intellettuale romeno Mircea Eliade. Coppola l’ha però sfruttata per continuare due aspetti della sua ricerca artistica: l’esplorazione attraverso il linguaggio cinematografico del tempo e della consapevolezza interiore. La vertigine che vive Dimitri e noi con lui è infatti proprio quella di un attraversamento dei confini tra passato, presente e futuro. O ancora tra sogni e vita materiale. Quasi a voler sostenere, come nel pensiero dei saggi dell’India, che “il tempo e lo spazio, la natura mentale e fisica, si incarnano tutte nelle sostanza dell’universo che è Dio, Brahma. Tutta la materia è semplicemente parte della nostra coscienza, ed è per questo che possiamo pensare il passato e il futuro e muoverci fra l’uno e l’altro. La nostra coscienza, che è parte della coscienza divina, fa da ponte tra loro” dice Wendy Doniger, la studiosa che ha collaborato alla realizzazione di Un’altra giovinezza. L’intuizione di Coppola è quella di proporre tale concezione del tempo al cinema stesso. Insieme alla saggezza orientale il regista combina la cultura giudaico-cristiana col mito di morte e rinascita – Dimitri è colpito dal fulmine il giorno di Pasqua. E sempre sulla questione del tempo viene in mente Sant’Agostino con Le Confessioni. Anche in quel caso la dimensione temporale dell’esistenza è una dimensione dell’anima, quindi interiore, che permette di tenere presenti contemporaneamente il presente, il passato e il futuro |
di Giovannella Rendi
Diciamolo subito e togliamoci il pensiero: se non fosse stato un film di Francis Ford Coppola le reazioni della critica sarebbero state ben diverse. Forse sarebbe stato stroncato senza pietà, forse sarebbe passato del tutto inosservato, forse qualcuno lo avrebbe apprezzato in maniera un po’ più costruttiva di quanto si è letto sui quotidiani italiani in seguito alla presentazione alla Festa del Cinema di Roma. Si può analizzare un film dimenticando chi sia il suo autore? In questo caso forse si può, in quanto, per stessa ammissione di Coppola, Un’altra giovinezza rappresenta più che una frattura con la sua precedente produzione un nuovo punto di partenza cinematografico. Indubbiamente si tratta di un film che rompe gli schemi non solo del passato del grande artigiano del cinema ma in generale della produzione statunitense tutta, un film che sfugge a qualsiasi definizione (visionario? filosofico? criptico? mefistofelico?), un film-contenitore enorme in cui convivono le diverse anime dell’antropologo e studioso delle religioni rumeno Mircea Eliade, che affronta temi come l’origine del linguaggio e l’eterno ritorno del ciclo della vita nelle filosofie indiane, e dello stesso Coppola, che vi riversa palesemente elementi autobiografici. Il protagonista Dominic Matei (Tim Roth) è un uomo che ha sacrificato tutto per inseguire un sogno, come molti eroi di Coppola, e allo stesso tempo è uno studioso ossessionato dai suoi studi filosofici come si può ipotizzare sia stato Eliade. Incapace di trattenere il grande amore (Alexandra Maria Lara) ma anche di trovare l’origine del protolinguaggio, a settant’anni è un uomo solo, inaridito, insoddisfatto, dominato da un enorme vuoto interiore che lo spinge al suicidio. Proprio alla vigilia del gesto più estremo, una sorta di miracolo (un fulmine che lo colpisce davanti alla stazione di Bucarest nel 1938) gli regala il sogno di ogni mortale, ovvero una seconda occasione, il sogno dell’immortalità. Un’altra giovinezza, dunque, per ricominciare un viaggio alla ricerca del tempo perduto con in più la conoscenza e l’esperienza già accumulate e triplicate dai suoi nuovi e misteriosi poteri (tra cui la capacità di impossessarsi del contenuto di poderosi volumi solo appoggiandovi sopra le mani e quella di far spuntare delle splendide rose rosse). La rigenerazione del corpo costituisce di fatto la parte più riuscita del film: il percorso di riassunzione delle proprie capacità e la scoperta di quelle più avanzate passa attraverso piccoli particolari (l’intensa sequenza del movimento delle dita per rispondere alle domande dei dottori) e soprattutto il rapporto umano e affettivo con un medico illuminato (il sempre bravo Bruno Ganz) che però si interrompe troppo bruscamente (Matei non batte ciglio alla morte del suo amico in un incidente aereo che potrebbe anche nascondere un omicidio) per lasciar spazio ad una cavalcata non solo attraverso lo spazio-tempo ma anche attraverso tutti i possibili generi cinematografici. I suoi poteri suscitano l’attenzione delle “eminenze” del Terzo Reich, che in lui ravvisano l’incarnazione di un superomismo nietzschiano e al contempo colmano la fascinazione per l’occulto e l’esoterismo alle radici del movimento politico, e di conseguenza il film vira bruscamente verso il film di ambientazione nazista (con l’attore tedesco Andrè Hennicke condannato al sempiterno ruolo del cattivo) e, causa inseguimenti e cambi di identità, in genere di spionaggio e noir. In seguito, con il passare degli anni, si delinea la denuncia della bomba atomica e della distruzione ambientalista, mentre la vicenda si snoda in un caleidoscopio di location da cartolina più o meno esotiche (le montagne svizzere, l’India, Malta in un tripudio di fiori e mare cristallino tra le rocce). Alle discutibili scelte estetiche, spesso davvero troppo estetizzanti e banali tra facili giochi di chiaroscuro, paesaggi patinati e profusioni floreali, si sovrappone poi un continuo disseminare filosofia in pillole, in particolare nei dialoghi tra Matei e il suo “doppio” (una sorta di “metà oscura” più onnisciente e carnale, un altro degli effetti del fulmine, in cui peraltro Tim Roth non riesce a controllare più di tanto un certo autocompiaciuto istrionismo) che risultano superficiali nel contenuto e appesantiti dal punto di vista cinematografico. Come si sospettava già dai tempi di Highlander, vivere per sempre porta un aumento di conoscenza (che però, come ricorda l’Ecclesiaste, comporta inevitabilmente altrettanta inquietudine) e l’eterno ritorno di situazioni dolorose, come il ritrovare la donna amata e ritrovarsi a dover scegliere tra l’amore e la passione ossessiva per lo studio. Se già la prima parte è suscettibile di critiche, decisamente la seconda procede per un’accumulazione che nasconde e giustifica le carenze strutturali dietro il carattere “visionario” dell’opera. La sceneggiatura e i dialoghi sono sempre più sull’orlo del ridicolo come le continue promesse amorose tra i due ritrovati amanti (“dimmi che non mi lascerai mai” dice lei, “non ti lascerò mai” risponde lui, il tutto ripetuto svariate volte), e anche i personaggi che appaiono sembrano sempre più macchiettistici, come nel caso dell’equipe di studiosi capeggiata da un professore italiano credibile quanto gli egittologi che risvegliavano mummie negli horror anni Trenta (pentendosene poco dopo). |
Ciao ,complimenti per il sito. Il film di Coppola è in effetti faticoso. Manca forse una coerenza ,come dice Galdiero, nella struttura narrativa. E’ troppo vederci un grande atto d’accusa contro le premesse culturali e ideologiche del nazismo, imbevuto di magia filosofia indiana e richiami esoterici?
può anche darsi. personalmente mi sembra più un percorso di conoscenza dove si intrecciano, affiancano, compenetrano il bene e il male. ciao, a presto.
Il professor interpretato da Tim Roth si chiama “DOMINIC” non “DIMITRI”!!