Dove inizia e finisce Gomorra, nel microcosmo infernale di Scampia, e dove si conclude tragicamente la battaglia personale del cronista Giancarlo Siani nel Fortapasc di Marco Risi, prende forma l’opera seconda di Claudio Cupellini, che dopo l’esordio nel lungometraggio con la commedia agrodolce Lezioni di cioccolato (2007), recupera ed amplia quel discorso di denuncia e di impegno civile rinnovato dal film di Matteo Garrone a partire dalle scottanti e impavide pagine dell’omonimo capolavoro letterario di Roberto Saviano.
Una vita tranquilla prova infatti ad allargare lo sguardo di là dei confini di Castel Volturno e di Torre Annunziata, percorrendo fugacemente le ramificazioni di un sistema finora osservato dal cinema italiano contemporaneo come realtà particolaristica, fenomeno isolato o piaga sociale circoscritta. Fugacemente, perché il film è prima di tutto il racconto di un dramma privato. E’ la storia di un uomo costretto a fare i conti con il proprio passato e con un destino che lo obbligherà a compiere una scelta definitiva; anche perché il retroterra culturale, violento e corrotto dei tre personaggi principali, posto in rapporto dialettico con la placida, uggiosa e sonnolenta ambientazione della provincia tedesca, pur rappresentando il motore primo della narrazione, è piuttosto un vissuto esperienziale del tutto interiorizzato che si esprime nella fisicità, nei gesti e nei comportamenti per condizionare equilibri e dinamiche relazionali, sconvolgendo un ordine evidentemente precario e non privo di ombre, ma necessario e funzionale.
Rosario Russo, cinquantenne un po’ appesantito e brizzolato con gli occhi languidi e crudeli di Toni Servillo, vive in Germania da quindici anni; è proprietario di un albergo ristorante immerso nel verde e nel silenzio di un paesino vicino a Francoforte e gestisce il locale assieme alla moglie Renate (Juliane Kohler). Tra una caccia al cinghiale, un litigio al giorno con il cuoco italiano per la scelta dell’assortimento migliore delle pietanze da servire, un’amante ogni tanto, e il bizzarro tentativo di abbattere gli alberi più prossimi all’hotel senza farsi notare, la vita scorre monotona e tranquilla. Un giorno di febbraio, però, una semplice telefonata sconvolge la quiete di Rosario, di Renate e di Mathias, il figlio di dieci anni: la voce grossa che risveglia l’animo annoiato e intorpidito dell’albergatore partenopeo è quella del giovane Diego, che dice di trovarsi in Germania per questioni di lavoro e di avere bisogno di alcuni giorni di ospitalità. Rosario accetta, ma è visibilmente turbato: chi è Diego? Perché si conoscono? Quale lavoro deve svolgere con l’amico Edoardo? L’ex esponente di uno dei più potenti e spietati clan del casertano decide di indagare: scoprirà perchè il suo primogenito è venuto a cercarlo dopo tanti anni. Scopriremo chi è Antonio De Martino.
La scrittura di Guido Iuculano, Filippo Gravino e dello stesso Cupellini disegna un andamento narrativo lineare, fondato sul progressivo accrescimento della tensione drammaturgica e sull’espediente poetico della scoperta, pur disseminando fin dalle prime immagini numerosi indizi che fanno presagire l’imminente sconvolgimento di un equilibrio comunque teso e nevrotico. Emblematica la sequenza della caccia iniziale costruita intorno ad un silenzio quasi sospeso e irreale poi spezzato bruscamente dall’esplosione di un colpo di pistola che fa sobbalzare lo spettatore dalla poltrona, come pure la scena della detonazione nell’albergo che costringe Edoardo (Francesco Di Leva) e Diego (Marco D’Amore) a cercare rifugio nella nuova reggia di Rosario Russo. Il punto forte di una sceneggiatura che risulta, in ultima istanza, discutibile in alcuni passaggi e in altri momenti troppo sfumata, consiste proprio nelle dinamiche relazionali che caratterizzano questo triangolo al maschile. Straordinario, in particolare, il conflitto d’onore che si instaura tra Rosario ed Edoardo, che fa emergere il lato oscuro e criminale del vecchio boss e l’incoscienza animale da futuro leader del figlio di Mario Fiore, divenuto ora il padrino di Diego: è un crescendo di rancore e di acrimonia che sfocia in odio puro, una sfida di sguardi, come mostra la memorabile sequenza della soggettiva acustica e visiva in cui l’albergatore matura l’idea di vendetta, approfittando dello stato di ebbrezza dell’ospite indesiderato, e di crudeli ricatti.
Appare inoltre convincente, perché ambiguo e contradditorio, l’atteggiamento di Diego nei confronti di suo padre e dell’atroce missione che è obbligato a portare a termine: un’altalena di sentimenti in grado di conferire compiutezza ad una figura difficile e poliedrica. La vulcanica alchimia tra i tre attori sottolinea, quasi per paradosso, l’eccellenza di Servillo nel misurarsi con un copione non scritto, come pure ad esempio nel recente Gorbaciof, con l’ormai consueta ispirazione “ad personam” sollecitata dalla maestà del grande attore napoletano. Questa maggiore apertura di spazi consente di assistere a un triello esaltante da cui né il promettente Marco D’Amore né il talentuoso Francesco Di Leva, il Picachù del Gomorra teatrale, escono sconfitti; se a “papà” Servillo è stato assegnato il Marc’Aurelio come miglior attore protagonista dell’ultima edizione del Festival del Cinema di Roma, Francesco Di Leva , non a caso, ha ottenuto il premio L.A.R.A. per un’interpretazione vibrante fatta di corpo, grinta ed istinto. Sarà interessante vederlo in futuro alle prese con un ruolo distante, o magari antitetico, alla propria inconfondibile fisicità. Sul piano stilistico la regia di Cupellini compie una intelligente operazione di contenimento emotivo, riuscendo a tradurre le esplosioni interiori dei personaggi in sensazioni di attesa e di tiepida suspence, grazie anche alla fotografia di Gergely Poharnok e alle sonorità elettroniche di Theo Teadro che completano il disegno estetico di un racconto dalle inquietanti inclinazioni e atmosfere noir, molto più vicine a La ragazza del lago che non a Gomorra. Uno dei film italiani più interessanti dell’ultimo Festival del Cinema di Roma, che continua complessivamente a deludere, ma è ancora in grado di lanciare promesse e nuovi talenti su cui è giusto scommettere.