In italiano suona meno bene che in inglese: Un Segreto tra di Noi (sbiadito adattamento di un più poetico Fireflies in the garden, lucciole in giardino) sembra quasi evocare un universo di crimini e misfatti nati e cresciuti in un ambiente morbosamente raccolto — un armadio, più che un salotto di famiglia. Opera seconda (dopo Jesus Henry Christ del 2003) di Dennis Lee, regista di origine cinese, Un Segreto tra di Noi esce a sette mesi dalla presentazione, Fuori Concorso, al Festival di Berlino, dove era stato accolto tra applausi poco convinti e qualche sbadiglio.
Un Segreto tra di Noi, va detto, non è un film radicalmente brutto. Non commette grossi errori, non è politicamente peccaminoso né si macchia di turgori repubblicani d’antan.
Un Segreto tra di Noi è l’esemplare più tipico (anzi, tipicamente medio) di tutta una letteratura di “film americani da festival, categoria fuori concorso”. Film non indipendenti (né di genere trash né di genere Sundance), non mainstream grassi di star, non d’autore e nemmeno spettacolari: un genere a sé, mesto, pudico e onesto come la middle class che, di solito, pretende di rappresentare. Le regole di appartenenza al ristretto — ma non ristrettissimo, essendo la medietà prima delle conditio sine qua non — gruppo, sono codificate come la commedia dell’arte e tenute sotto chiave da rampanti avvocati (di ceto non medio) dentro ponderosi contratti protetti da trademark.
La primissima di esse, che Lee recita come un preghiera prima di andare a dormire, è l’ambientazione: famiglia di middle class, al più di media borghesia di provincia, liberale e vagamente abbiente, magari con qualche rapporto, anche alla lontana, con l’intellettuale New York. Dato il contesto, Lee inserisce da manuale i personaggi principali: una donna, affranta ma comprensiva, il grande motore della casa; un giovane uomo, lasciato dalla moglie, schiacciato da un padre-padrone, fragile e tormentato (ma nel fondo dell’anima), con il condimento di qualche straziante incubo notturno; uno o più bambini, imperativamente WASP, saputelli, simpatici e dai grandi occhi azzurro-cielo che brillano mentre giocano a baseball nel giardinetto dietro casa.
Nel cuore grande di quest’America dei Valori (che non è un partito, ma giù di lì), con la famiglia divisa ma unita al centro, è necessario però che si apra uno squarcio: dicasi la scomparsa di uno dei cari, indiscutibilmente figlio/a o (come in questo caso) un genitore — possibilmente, come statistica impone, in un incidente d’auto; un segretello (che davanti ad altri orrori d’oltreoceano impallidisce mesto), taciuto per il bene del gruppo, meglio se poi c’è qualche cameo di star (qui Julia Roberts e Willem Dafoe), una fotografia pulita dai bellissimi colori autunnali, e metà del film è fatto.
Tutto il resto, dice la matematica euclidea, è facilmente deducibile con le variazioni minime del caso: 27 minuti dedicati ai ricordi (leggi flashback), 4 ad una scena di sesso assai controllata (vedi la ex-moglie), 3 al funerale, 15 al lutto.
Tutti insieme, sotto lo stesso tetto, legati dal dolore; se capita, qualche pranzo, e sulla tavola i grandi piatti della tradizione; pochi, misurati gesti d’amore, nessuno slancio plateale su una sceneggiatura di ferro — rigida come un appendiabiti dell’Ikea — e tanta noia, quella scolastica ma composta, di troupe, attori, pubblico e critica.
Le famiglie, scosse, smosse, commosse, tornano insieme, versando qualche lacrimuccia, si stringono nei cappottini di un inizio d’autunno americano, le signore ripongono nelle borse i fazzoletti; anche stavolta, Hollywood ha fatto il suo dovere, consegnato senza ritardi il suo onesto pacco familiare: la messa è finita, andate in pace.