L’appuntamento con mio figlio era davanti al teatro Vittoria.
Di fronte avevo il giardino di Piazza S. Maria Liberatrice attraversato in tutte le direzioni dalla movida notturna di Testaccio, un vociare indistinto a cercare una destinazione per trascorrere la serata.
Ero sicuro che ancora una volta mio figlio sarebbe stato puntuale … nel suo ritardo, e così ebbi tempo d’osservare gli altri spettatori in attesa. Le donne mi sembravano più convinte nella scelta di quello spettacolo teatrale e ne parlavano con ansiosa curiosità. I loro compagni mal celavano la rinuncia alla partita televisiva prepagata sulla comoda poltrona casalinga. Entrando in sala, mi chiesi se gli spettatori avrebbero avuto lo stesso approccio al “Mistero buffo” di Paolo Rossi, “un’umile versione pop”, che ha bisogno di un’altrettanto umile disponibilità pop-olare.
Ma questo nobile erede del teatro medioevale di narrazione dei giullari itineranti, riesce a rompere il diaframma tra attore e spettatore oltre che con l’incalzante ritmo del montaggio delle sue affabulazioni, con un’interessante strategia scenografica. Rossi recita sul proscenio e il vero/falso palcoscenico diventa la ricostruzione retrostante di un palcoscenico da girovaghi; l’attore come mediatore comunicativo tra i malumori popolari ed il retrostante palcoscenico che sarà riempito dal vero “attore” dell’evento teatrale solo nel finale: il Cristo sulla croce.
A distanza di 42 anni dalla prima messa in scena di Dario Fo, la versione pop di Paolo Rossi rappresenta un omaggio a un maestro e nello stesso tempo un’attule macchina attoriale postmoderna. Fluidità di gesti e parole in Fo, discontinuità e frammentarietà in Rossi. Al grammelot maschera linguistica che più che celare rivela i momenti più propriamente comici, si alterna la fredda e tagliente lingua ufficiale delle accuse perentorie e drammatiche.
Alle luci diffuse, quelle direzionate e concentrate. Allo sberleffo, la critica sociale. Allo spaesamento di una lucida Lucia Vasini stralunata, succede un monologo che sulla scena lo stesso Rossi definisce perfetto anticipando il giudizio dell’ammirato pubblico.
A questo gioco del vero/falso, copione /improvvisazione, attore/spettatore, non è estranea l’attenta e partecipata regia di Carolina De La Calle Casanova. La sua cultura spagnola affonda le radici in Cervantes e in tanti anni di collaborazione con Paolo Rossi, ha scoperto la possibilità di individuare nello stesso attore, il folle e idealista Don Chisciotte e il concreto e realista Sancho.
Se anche voi avete il dubbio che “di cultura non si mangia”, godetevi questo Mistero buffo di Paolo Rossi e poi spiegatemi questo appagante senso di soddisfatta sazietà.
P.S.
A proposito del teatro come vita o della vita come teatro, quel frammento dedicato al fenomeno dell'immigrazione, mi ha creato un corto circuito tra le frenetiche evocazioni di Paolo Rossi e i possibili scenari urbani di un futuribile teatro che si riannodi alle passate esperienze di un Eugenio Barba, alle sue "isole galleggianti" che ospitano quelli che non accettano le regole dominanti e che solo dall'incontro con altre isole galleggianti trarranno nuova linfa di un meticciato che realizzi di fatto un grammelot antropologico.
Sull'essenziale proscenio del mistero buffo oltre a Paolo Rossi ed al suo complice Emanuele dell'Aquila, staticamente è presente un manichino ad incarnare vecchi e nuovi poveri cristi. La stupenda provocazione teatrale immagina la moltiplicazione di questi manichini-immigrati tinti di nero nelle mani di uno scafista che li traghetta da una sponda all'altra del lago di Garda (?!) per suscitare le reazioni degli abitanti, diciamo di Salò. Ma altrettanto interessante la reazione dei turisti tedeschi che, già convinti d'essere sulle rive dell'Adriatico, hanno la conferma della vicina Africa.
Paradossale come la migliore satira? O non piuttosto un suggerimento per un teatro sociale calato nella realtà, sull'onda dell'improvvisazione ispirata alle notizie di cronaca, laboratorio permanente fuori dalle gerarchie spaziali di teatri tradizionali?
Sarebbe una straordinaria performance erede della vecchia commedia dell'arte che non è nata per scelte estetiche o di linguaggio ma perché anche i buffoni, saltimbanchi, emarginati dalla cultura ufficiale, potessero, socializzando le loro differenze, dare spazio e voce al piacere di proclamare il diritto ad una vita dignitosa.
Ricordate la favola di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno? No, siete troppo giovani … e poi anche i cortocircuiti perdono la loro carica.