[****] Mia Hansen-Love, giovane e già pluripremiata regista francese, dopo la folgorante opera seconda presentata a Cannes nel 2009, Il padre dei miei figli, torna nelle sale con Un amore di gioventù (Un amour de jeunesse), racconto di formazione che ha come sorgente il primo amore – l'amore di gioventù – dal quale fuggire e al quale (anche simbolicamente) tornare in un movimento incessante che corrisponde al fluire del tempo.
Camille e Sullivan sono due adolescenti che scoprono per la prima volta il desiderio e l’amore che è anzitutto scoperta di una vicinanza fisica e affettiva con cui la mente sembra avere poco a che fare, alla ricerca di gesti comuni, semplici (le scene d’amore sembrano quasi riprese documentarie o comunque interpretate da non professionisti), in una vicinanza che è assoluta in quanto prima volta, piena di silenzi densi e partecipi che hanno come correlativo il linguaggio immediato del corpo – i loro abbracci sono fusionali. Ma l’assolutezza idealistica di lei confliggerà ben presto con la fuga nell’esperienza di lui, lasciando la quindicenne Camille nel vuoto disperante della separazione. Lo aspetterà, ma dopo aver sperimentato, o, meglio, vissuto diversi anni di autentica e necessaria solitudine, incontrerà, alla facoltà di architettura, un professore con cui poter parlare e condividere progetti – anche se non il desiderio totalizzante ed esclusivo che aveva con Sullivan.
La regista ci mostra il percorso di Camille verso l’indipendenza e la consapevolezza, ma nel farlo non rinuncia mai alla fluidità e a una certa irrisolutezza (un'ambiguità che traspare anche dalle immagini), allontanando la tentazione di semplificare i nodi con raccordi bruschi che (nel cinéma de papa), sottolineando gli accadimenti, vorrebbero formare il convincimento dello spettatore. La Hansen-Love, insomma, possiede quella grazia e quella speciale cifra francese che possiamo ritrovare anche in altri autori – Truffaut nell’attenzione alle ferite e alle possibilità dell’adolescenza, Assayas nell'esaltare l'attitudine cinetica delle immagini, ma anche le vertigini esistenziali di Eustache e Desplechain in cui esaltazione e sofferenza si succedono senza soluzione di continuità in un registro comunque mai tragico. Quello stare dentro e fuori gli accadimenti rappresentati, insomma, in un movimento leggero e distaccato che rende reali e “riflettibili” anche gli eventi più violenti e crudeli, e che è un modo tutto francese di fare cinema. L’identificazione, se avviene – e in questo film, al netto di magnifici strappi, si può dire che avvenga – non porta mai alla catarsi. Così che il flusso dei pensieri messo in moto dalla visione si radica nello spettatore con una pressione leggera ma – appunto – persistente. Il bagno (o piuttosto la questua) di emotività, grazie a dio non avviene. C’è tempo per pensare. E per ricordare.
Ed è proprio il tempo che sembra interessare la regista – quello del momento, del ricordo, del cambiamento e della testimonianza – la quale costella il suo film di immagini-tempo dove campi lunghi a visuale libera e piani sequenza ci restituiscono la percezione del suo scorrere, del suo passare di momento in momento tanto nel divenire dell’acqua del fiume quanto nel desiderio sempre diverso dei corpi. Ed è anche la natura, filmata a più riprese, con i suoi cicli e le sue irreversibilità. Il film si chiude, forse non a caso, con l’immagine del fiume che scorre nel tempo reale e i titoli di coda che scorrono nel tempo (accelerato) del cinema.
Questa dualità la ritroviamo anche negli amori di Camille, che condivide l’idealità, l’interesse per la forma, l’ambiente, per il contesto, la tensione verso l’astratto e la costruzione (e forse anche il fantasma paterno) con l’architetto, ma non l’assoluto della passione, della presenza, del momento, dell’esserci. Il qui e ora del tempo continuo in cui Sullivan sembra riportarla ogni volta. Anche se con lui Camille non parla. Quasi un’opposizione tra un assoluto fisico e uno mentale (che d’altra parte tante storie di emancipazione femminile ha permeato). Appare significativo, in questo senso, quando l’architetto, dandole il primo bacio, fa un'espressione facciale come per giustificarsi, un’ironia che sottolineando la situazione crea anche un distacco. Ma una distanza che è anche rispetto dello spazio libero e vitale in cui poter sperimentare e accrescersi.
Il passaggio all’età adultà che transita nel dolore della separazione dall’amore fusionale: potremmo anche commentare -con compiaciuta saggezza. Senonchè una visione così chiusa nei perché e nelle psicologie farebbe un torto all’amore che la Hansen Love sembra avere verso la storia che racconta e alla sua disponibilità verso le cose esistenti (concrete ed astratte).
Divertente e (simbolicamente) riuscita è la descrizione dei lavori che Camille ingaggia quando decide di superare la separazione da Sullivan: tutte occupazioni che implicano il mettersi addosso una divisa che nei colori e nei vezzi ricorda il travestimento, ossia la contaminazione dell’identità.
Come dicevamo prima, la Hansen-Love dissemina qua e là un paio di strappi alla linearità della realtà, esibendo il linguaggio del cinema e così rompendo l’identificazione con i personaggi. Uno di questi è quello che potremmo chiamare la parabola del cappello, in cui la regista, attraverso inquadrature a stringere e rallenty, mostra il percorso nel tempo di un cappello: dapprima Sullivan lo regala a Camille, poi lei lo scambia con lui, infine, caduto nel fiume, si vede tallonato dal tuffo di Camille che, vivida e tenace, insegue nei riflessi dell’acqua il suo oggetto del desiderio.
Uno di quei film di cui forse non si dovrebbe nemmeno scrivere. Ma Brandoni può 🙂