Lei:“Stammi vicino sempre però, perchè io non ce la faccio…”. Lui: “Sempre.”
In questo scambio di battute rapido, fulminante, diretto tra Guido e Antonia, i due protagonisti dell’ultimo tenero, dolceamaro film di Paolo Virzì Tutti i Santi giorni, è contenuto il cuore profondo, il senso ultimo della storia di questo piccolo uomo e questa piccola donna che, senza volerlo, nella loro spontaneità e autenticità, si fanno racconto di tante altre coppie e altre situazioni che è possibile incontrare, una volta usciti dalla sala cinematografica, prendendo il tram oppure mettendosi seduti su un panchina ad osservare la gente che passa, in particolare in una città rutilante e densa come Roma, dov’è ambientata questa storia. Bisogna però essere disposti ad ascoltare e ad osservare per coglierli i Guido ed Antonia che ci passano accanto ogni Santo giorno ed è la stessa disponibilità che, in fondo, ci chiede il film di Virzì spingendosi anche oltre e invitandoci, esattamente come ha fatto lui, ad amarli e a volergli bene. E’ giusto dire che non sveleremo a che punto e per quale ragione arriva quello scambio di battute citato nell’incipit di questo articolo e non certo per evitare lo spoiler rispetto alla trama di un thriller. Il motivo è che quel dialogo, una richiesta esplicita e schietta a cui segue una risposta altrettanto chiara e precisa, attraversa tutta la storia e ne diventa il filo conduttore o meglio il leit motiv, restando in tema musicale, visto che la musica è l’altro canale attraverso il quale è possibile stabilire un legame ed entrare in empatia con il mondo di Guido e Antonia, o almeno con quello di Antonia sicuramente, cogliendo subito una sovraimpressione tra ciò che vediamo sullo schermo e la realtà dei volti inediti che prestano anima, corpo e voce ai personaggi.
Antonia, infatti, che fa l’impiegata in un autonoleggio, aspira a diventare cantautrice rock e per questo motivo è in continua ricerca di scritture in locali notturni e pub. Questa passione, fragile e intensa al tempo stesso, appartiene anche alla debuttante protagonista, Thony, attrice per caso e forse anche un po’ per forza, convinta dall’insistenza di Virzì ad abbandonare il mondo intimo, segreto, un po’ solitario della sua chitarra per fare l’ingresso, magari un’apparizione che rimarrà unica, nella più chiassosa e picaresca realizzazione di un film. La bellezza di Thony, dall’aspetto e dalla voce così agrodolci come la Sicilia da cui proviene, e ovviamente la capacità di guidarla di Virzì, stanno nell’aver portato una certa riottosità e indolenza della cantautrice a prestarsi all’esperienza della recitazione dentro il personaggio di Antonia, tanto da farne scorgere tra le pieghe più segrete quella sensazione di umanità, per cui le ferite e le amarezze dell’Antonia del film, che cerca di far sopravvivere il suo entusiasmo, la necessità di esprimersi nella voce e nel suono in mezzo ad una realtà indifferente e spesso per nulla in ascolto, appartengono alla stessa Thony, alla sua esperienza personale ed artistica, quando ventunenne è arrivata proprio qui, a Roma, aspettando che qualcuno si mettesse in ascolto.
E nel film l’unico che sembra mettersi in ascolto delle delicate, struggenti e malinconiche canzoni di AntoniaThony, è lui, Guido, una sorta di Candido fuori tempo massimo e costantemente pesce fuor d’acqua, un coacervo di contraddizioni serenamente risolte nell’aver messo insieme un lavoro come portiere di notte dentro un albergo e la passione per la storia antica e in particolare per il periodo paleocristiano, un “talento” non spontaneo e istintivo come quello della sua compagna, ma maturato attraverso anni di studi classici, possibilità accennate e perdute di poter lavorare in prestigiose università americane, tutti spunti che il film da, con sapienza narrativa, già superati dal personaggio e di conseguenza anche dalla storia e che danno a Virzì l’opportunità di tipizzare ancora meglio le differenza tra i due personaggi: lui un po’ statico, quasi passivo nel suo idealismo che a volte usa la cultura per sublimare nella bellezza astratta le spigolature della realtà e della sua Antonia, lei d’altra parte irrequieta e in un continuo, sfuggente movimento di cui spesso Guido non capisce le traiettorie. E anche la scelta di avere un bambino, il pretesto intorno a cui è costruita la dinamica tra Antonia e Guido, rientra nell’onda di questi movimenti non più “falsi” ma che, come sempre nel cinema del regista livornese, sono la traccia nascosta per un percorso di maturazione interiore, come se all’inizio del film ci trovassimo ad accompagnare Antonia e Guido sulla soglia della porta d’ingresso di un’altra età e di un’altra stagione della loro vita.
Quello che ci piacerebbe lasciare fuori dalla soglia di questa porta e che forse abbiamo trovato stridente, quasi superfluo, è il tono al confine del grottesco con cui Virzì passa dal piacere del racconto di formazione alla descrizione dell’ambiente, anzi degli “ambienti” medici a cui la coppia si rivolge per poter concepire: dal medico conservatore e paternalista alla dottoressa emancipata e progressista dell’inseminazione artificiale, il tutto condito da un’insistenza di spermeogrammi, masturbazioni farsesche, buffi accoppiamenti clandestini per rispettare i tempi di ovulazione e corse contro il tempo per la donazione dello sperma, tutte situazioni che alleggeriscono la tensione costante verso un’intensità di fondo e una malinconia che ci sembrano essere la vera anima di Antonia, di Guido e del film.
A questo punto è giusto riconoscere che gran parte dell’innamoramento per questa storia ha la sua origine nel racconto La generazione, il cui autore, Simone Lenzi, appartiene a quello stesso mondo della musica indipendente, underground da cui proviene Thony, essendo l’autore dei testi e la voce dei Virginiana Miller, uno dei gruppi storici del rock italiano, livornese come Virzì. Probabilmente, grazie allo spunto del romanzo da cui è partito che si concentrava più sul personaggio di Guido, tra le righe del quale si può leggere un ritratto dello stile Lenzi, Virzì ha saputo tirare fuori da se stesso quel nucleo di calore e ruvidezza, quella viscerale, disperata fame di vita e la disillusa consapevolezza di quanto a volte il mondo intorno possa essere spaventoso e violento. Parafrasando questa impressione sul suo cinema dai versi di una canzone di Lenzi per i Virginiana Miller, Acque sicure (dal cd Il primo lunedi del mondo):
giurami che resteremo
giovani e felici
e sempre in bilico
su queste superfici ….
E magari in realtà è questo l’invito che Antonia ha fatto a Guido, anche se le parole migliore che riassumono il sentimento che ti lavora dentro alla fine di questo film sono in una recensione di rock, politica e pessimismo sulla musica di Thony che si trova sul suo myspace: “L’ascolti ed è come se stessi sentendo il respiro di una domenica sera. Quando fuori la gente scarseggia e c’è
quella malinconia da fine weekend che ti stringe un po’ il cuore….”
O come una passeggiata nottura, nei pressi della Stazione Termini, a raccontarsi ognuno nella propria limitata, imperfetta verità.