Virzì riprende quota, forza e velocità. Devolve buona parte del suo autobiografismo trasversale alle esigenze del tempo e del costume. Inclina il canovaccio quasi fisso della sua tattica cinematografica verso l’Italia più contemporanea e pubblica. Viaggia in direzione di contenuti che potrebbero aprire il varco a una rivoluzione tematica nel cinema italiano di consumo. Compresa la commedia, persino quella giovanilistica: scatolame sempre aperto a nuove sfumature. Ne guadagnerebbe il nostro cinema se fosse, e pure la nostra società, ma non è detto che sia.
Che fa Paolone? Prende ancora un giovane della provincia, di quella sua terra ingenua e pura, leggermente idealizzata, e lo mette ad osservare il marcio della società, ancora una volta di domicilio capitolino. Stavolta la protagonista è donna, anzi ragazza. Carina, molto tipo, dolce, saggia e buona come lo erano il Gabriellini di OvoSodo, il Corrado Fortuna di My name is Tanino e la piccola Caterina del suo penultimo film. Intelligenze di cultura contadina, anzi pescatrice, cresciute a prodotti regionali, antichi valori e ragionamenti semplici e franchi. Menti sane in corpi sani, occhi lucidi e brillanti, di quelli che capiscono ma non reagiscono, se non con una riflessione costante, silenziosa e un po’ ossequiosa verso i privilegiati cupolari romani, figli della borghesia dominante e ben piazzata tra sampietrini e ministeri. Il primo bravo al regista, non l’unico ma neanche l’iniziale di una lunghissima serie, glielo diciamo per la scelta della giovane: una deliziosa Isabella Ragonese dal dialetto siciliano appena accennato e quasi nascosto in un sorriso malinconico e spento. Virzì le affida le chiavi di un film acido e grottesco, più amaro che comico. Un film sui giovani di oggi, molto manicheo, e sui vecchi problemi della nostra terra. La distanza tra tra l’eroina e la massa fa riflettere e lascia qualche dubbio. Virzì carica tanto per creare cinema e sentimenti contrastanti, situazioni antagoniste che obbligano allo schieramento spettatoriale. Da una parte i brutti, dall’altra i cattivi e in mezzo la buona, santa, sola e precaria. Il suo personaggio è un ossimoro ambulante. Accanto a lei, per contrasto costante, Virzì infila una bruttezza così robusta che rischia di morire per asfissia. Dipinge figure di sabbia coloratissima che catturano l’attenzione ma che crollano di fronte a un improvviso troppo prevedibile. Con loro il regista rafforza la famosa (e a lui cara) invettiva contro la società dell’immagine e della raccomandazione. Il problema, sembra dirci in mezzo a tanti schizzi d’effetto e maestria, non è una società senza cultura e nemmeno l’inutilità della cultura in questa società. Alla fine del film, infatti, i valori umani e culturali di ognuno saltano fuori. E l’eroina, pur non guadagnandone in premi e soddisfazioni pratiche, vince in scioltezza la sua gara. Il nodo sta nella possibilità o nell’impossibilità dei bravi ragazzi di oggi, (che sembrano una rarità a guardare Tutta la vita davanti), a vendere il loro prodotto. E’ un vecchio concetto, questo, caro al nostro paese da molto tempo prima della nascita dei call-center e del precariato.
Troppo brutto Ghini per essere vero. Troppo poco umano e per ciò poco simbolico. Poco uomo e molto fumetto. Decisamente più energico, forse perché poggiato sul vecchio e inaffondabile archetipo di Norma Desmond (per la gioia dei cinéphiles che, se presi per la gola e per la memoria rischiano di lasciarsi andare all’indulgenza), l’acre e più spesso personaggio ferilliano. Sarà gossip di quart’ordine, ma si respira una leggera somiglianza tra la tragedia di Daniela e la carne umana della Sabrina di Fiano Romano. Che è brava davvero a sviluppare il terzo personaggio valido sotto la guida di Paolone, l’author comico. Gli altri film erano La bella vita e Ferie d’agosto. Felice il colore smaltato e algido di gran parte del film, come le trovate e il brio dei tanti personaggi, di contorno sì, ma tutti attivi. Non del tutto approfondita, invece, l’indagine sociale tentata dal regista. C’è del malsano ma non è supportato dalla giusta dose di tragico realismo. L’omicidio porta fuori dal problema, come certe strade non asfaltate della sceneggiatura e come l’incidente, a proposito di strade, di Elio Germano: uno che all’inizio del film sembra sempre che esageri nell’enfasi ma alla fine non puoi fare a meno di pensare a quanto sia stato bravo.
Alcune domande senza risposta: 1) Perché una ragazza così in gamba e determinata non continua la sua lotta e si ferma più del dovuto dentro quel postaccio? Perché per un lavoro da pochi euro al mese la stessa rinuncia a stare vicino ad una madre così amata e nobile nel momento in cui sta per perderla per sempre? Il film è una favola sociale inzuppata in una pentola di realismo da rabbia e tenerezza. La fusione provoca un prodotto fertile ma non stomachevole come la realtà. Non vorremmo che Virzì, per principio e tradizione, abbia voluto prevedere troppo a tavolino lacrime, risate, indignazione e comprensione. La borghesia sorridente e agiata, realisticamente cinica e intellettualoide che Marta incontra sul terrazzo, è molto divertente e al passo coi tempi che non cambiano mai, ma è la stessa che il regista ci aveva presentato in Ovosodo, Ferie d’agosto e Caterina va in città. Non c’è niente di male nell’odiarne l’invidia e il potere, ma ripetere costantemente il concetto rischia di diventare un’ossessioncina personale. In Tutta la vita davanti si respira l’aria delle lobbies e della mancanza di meritocrazia. La gioventù è troppo atterrita per essere in grado di raccontarsi inequivocabilmente, e ciò sottrae al film parte della possibilità di diventare un vero manifesto del tempo e del problema. Va bene, benissimo, la focalizzazione del concetto, va bene la commedia amara che tiene alto l’esempio di un cinema davvero per tutti (per i colti e i cercatori di emozioni), vanno bene lo spazio filmico curato e l’attenzione al trucco e ai costumi. E’ ottimo, come sempre, il lavoro virziniano sul tic e sullo slang. Però il ritratto generazionale è un poco monco, troppo schiacciato dalle esigenze spettacolari che strappano emozioni e consensi. Meglio Celestini, nell’indagine, che va a incontrare con trecento euro di telecamera la verità dei giovani da call center. Che sembrano interessati a tutto meno che al grande fratello. Tutta la vita davanti fa bene, aggiunge valore a Parole sante, al discorso sui giovani e sul lavoro ed è un buon film. Ora avanti, però, con un cinema più politico nel raccontare e più europeo nella serietà. Virzì, intanto, ha fatto il suo. E come al solito lo ha fatto con mestiere, acum
e e sottili intuizioni. Come al solito racconta meglio i personaggi che conosce e ama. Per gli altri, disgraziati con la D maiuscola, aspettiamo il film di un autore che con essi condivida esperienza e cultura.
non credo si potesse dire altro di questo film ma una cosa in più forse si.e la vorrei aggiungere con la serenità di chi poco sa e non pretende di sapere.
il precariato che genera infelicità si percepisce solo nel privato delle nostre avventure quotidiane e non dalle lacrime delle ragazze che scappano dall’autobus di virzi.nel film il precariato è massa, materiale abbondante e la storia della protagonista ( CHE TIMIDO SORRISO)
caro edo come al solito mi sono perso….
scrivi molto bene..
un abbrccio