Entrare al cinema di pomeriggio è un privilegio di pochi. La sala è ottimisticamente mezza piena e guardandomi intorno scopro con sorpresa di essere quasi la più giovane. Forse già proiettata nell’imminente visione, un pensiero mi balena. Ma cos’è che fa invecchiare rimanendo aderenti e in attitudine vitale al tempo che passa? Cosa ci fa battere un contrattempo costante alla finitezza della vita ed avere la necessità, fino all’ultimo respiro, di catturare una sequenza di attimi, per regalarli generosamente a chi verrà dopo di noi, per lasciare un’impronta di prosecuzione, di eternità.

Turner è la storia di un’ossessione. L’ossessione per la luce, l’ossessione per la vita. Turner è la storia di un uomo e del suo rapporto col sublime. Leigh ci propone di scivolare dentro al film (in costume) fin dai primi fotogrammi, ci ritroviamo fianco a fianco ai personaggi, nella quotidianità della vita inglese di primo ottocento, in uno slittamento spazio-temporale talmente realistico e tangibile che siamo con lui tra i banchi di un mercato di verdure o in mezzo ai cavalli sotto i grigi londinesi, nella tempesta di un mare del nord, tra gli artisti della Royal Accademy o nella bottega dei colori ad ordinare, come se l’avessimo sempre fatto, giallo ocra e blu oltremare.
 
Perché Joseph Mallord William Turner è un artista, un rivoluzionario romantico in controtendenza verso il suo tempo (fare arte non è forse mettersi oltre con il proprio modo, con l’originalità che contraddistingue?) e come tale non può essere prescisso dalla sua arte. E’ un pittore della luce che continua forsennatamente ad inseguire, ossessionato dalla ricerca del sublime nella natura, dalla continua tensione verso il superamento della raffigurazione stessa del paesaggio: è squarcio, è mare impetuoso, è tempesta, è sputo, lacrime e materia impastate, è abbandono del primo-piano, è antiarmonico, caotico, sublime inteso come quel sentimento sospeso tra bellezza e orrore.
E Timothy Spall è perfetto per questo ruolo. Ma in verità tutti i personaggi collaborano fedelmente a quel concetto (e processo) di pittura unitaria che mette insieme Leigh, sono amalgamati e illuminati all’unisono democraticamente, con compassione, senza preferenze, anche nella loro doppiezza, ambivalenza estetica e psicologica, tra attrazione e repulsione.
 
Turner è un bifolco, non parla ma grugnisce, un orco che ha introiettato tutta l’indomabilità, la maestosità, la violenza della natura nelle sue pulsioni anche sessuali, quasi animalesche, ed è talmente inadatto a relazionarsi col genere umano che brama dolorasamente di catturarlo più volte in immagine, quasi mai riuscendoci. (Prima in un bordello mentre tenta di ritrarre la prostituta, quasi sgrufolando nell’impossibilità di riuscirci o nel secondo tentativo quando scende in strada quasi moribondo per disegnare una fanciulla appena annegata). Eppure nella prigione così connotata della sua fisicità, in quel tormento esistenziale e doloroso del corpo dell’artista che segna il Limite per lo spirito che anela a trascenderlo, si nasconde un segreto di sensibilità estrema, una seconda verità, esplicitata nella scena in cui canta con voce rotta e virile il Lamento di Didone di Purcell, stravolgendone la Maniera canonica dei sopranisti.
 
E lo stesso tormento del corpo e il suo superamento, lo vediamo proposto sul silenzioso personaggio di Hanna Dandy (la bravissima Dorothy Atkinsons) la governante, nipote dell’ex moglie di Turner sulla quale lui si avventa brutalmente, in preda alle sue necessità sessuali, e che non degna mai di uno “sguardo” tanto che pur di essere vista essa somatizza il suo dolore trasfigurandosi gradualmente attraverso un’evidente psoriasi.
Lo sguardo amorevole su di lei ancora una volta lo posa invece Mike Leigh, che la ritrae rendendole finalmente giustizia, per quell’amore incondizionato e mai ri-conosciuto; così è per lei l’ultima inquadratura del finale e lo fa con una precisione quasi didascalica all’opera di Turner, per cui nonostante il ‘destino’ di cercatore di luce, di verità, e l’incapacità di vivere non da uomo normale ma da artista, non si scorda di raffigurare quel prezioso particolare che a stento riusciamo a scorgere, in fondo alla tormenta e che da un senso diverso e pieno di gratitudine a tutta l’esistenza.
La tua mano, Belinda, l’oscurità mi avvolge.
lasciami riposare sul tuo petto
vorrei restare di piu’, ma la morte mi invade.
La morte è ora un benvenuto ospite
e quando sarò sepolto, sarò sepolto nella terra
possano i miei errori non creare alcuna pena
al tuo cuore.
Ricordami, ricordami
ma, ah, scorda il mio destino.
Ricordami, ma scorda il mio destino.
(Dido’s Lament – Henry Purcell)

3 Replies to “Turner di Mike Leigh”

  1. Grrrrrrunt!!! Turner commentò. Molto bello, il film, il pezzo, il colore che si stempera e si sbiacca nella didonica ricerca..della linea perfetta. Quella che non è più, ma è stata e forse verrà (permane, nel ricordo).

  2. e chissà se non sia un risolvere uno svolgere il ricordo (della figura) nel divenire della linea e della forma astratta libera pura, luce rivoluzionaria rispetto ai paesaggi rassicuranti e borghesi del suo tempo, paesaggio contemporaneo in cui è la superficie ad essere profonda e in cui il ricordo è lasciato a ciò che permane di aureo intorno a una istantanea che si fa fotografia tascabile, e in cui il sublime, svincolandosi dall’interiorità del soggetto, diventa anticipazione visionaria (e dolorosa in quanto abbandono di ciò che si conosce e dunque si può ricordare) del futuro del mondo…

  3. Leigh è uno dei miei dieci registi prediletti, ed anche in questa opera ne ho avuto conferma.
    Un’altra conferma è quella di leggere le sue recensioni gentile SS, dato che sono sempre d’accordo con i suoi suggerimenti ed argute osservazioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.