Di Giovannella Rendi / La morte annunciata gode di una vasta letteratura cinematografica, di cui quella per malattia è una sorta di sottoinsieme dai sicuri effetti emotivi. Così a memoria, nel passato più remoto viene in mente Tramonto, dal titolo originale ben più efficacie di Prognosi negativa, in cui una giovane Bette Davis con diagnosticato tumore al cervello prima si faceva tentare dalle rudi braccia dello stalliere Humphrey Bogart e poi finiva per sposare il suo medico e renderlo vedovo nel finale (questo sì che era melò, con buona pace di Todd Haynes). Seguono, sempre a memoria, Love story e Voglia di tenerezza, e la garanzia che non resterà neanche un occhio asciutto in platea.
In tempi più recenti, il genere “malattia terminale” prende nuove strade: intanto a morire non è sempre più solo una donna, meglio se giovane, meglio se mamma di pargoletti, meglio se felicemente sposata, dato che chiaramente della vecchia zitella acida tutti si augurano la dipartita da anni. Rimangono delle eccezioni, come lo struggente e bellissimo La mia vita senza di me di Isabel Coixet che riesce miracolosamente a schivare l’effetto melassa, grazie al geniale escamotage di tacere la malattia a tutti tranne che allo spettatore e alla protagonista e grazie a quella che è di fatto la tendenza del nuovo millennio, ovvero, dopo la invitabile e comprensibile disperazione, un approccio laico e pragmatico alla morte. Che prevede ormai sereni e addirittura sghignazzanti commiati insieme agli amici di una vita, come nel caso de Le invasioni barbariche, o addirittura boccaccesche uscite di scena su ordinazione, come nella clinica per suicidi di Kill me please di Olias Barco, dove a pagamento si può scegliere di andarsene tra le braccia di una ventenne in topless brindando a champagne, ovviamente avvelenato.
Coniuga perfettamente le novità del genere, il film spagnolo Truman, vincitore in patria di una serie impressionante di premi a partire ovviamente dai Goya. Il protagonista è un uomo, anche qui bello, abbastanza giovane (cinquantina inoltrata) e attore di successo, a conferma che la dipartita degli oscuri travet piace più alla letteratura russa dell’ottocento che al cinema (con l’eccezione di Vivere di Kurosawa, un regista che dietro la facciata di genere ha spesso nascosto raffinate rielaborazioni d i classici). Julian è malato di tumore, la cura fa effetto ma forse no, non ha dolori né perde i capelli, la sua vita sembra apparentemente normale a prima solo che non lo è più. A trovarlo a Madrid per soli quattro giorni viene dal Canada il migliore amico di una vita, Tomas, ingegnere specializzato in robotica con tradizionale famigliola nella casetta a schiera sotto la neve.
Il regista Cesc Gay conferma il suo interesse per un cinema prima di tutto di attori e di sceneggiatura, cui la regia è senza troppi traumi subordinata, e non ha paura di incrociare esplicitamente il melò da malattia terminale con la commedia vera e propria, con tanto di stereotipo da “strana coppia” e pure di cane al seguito. È proprio il cane, il Truman del titolo, a fornire al protagonista un diversivo che lo distragga dall’angoscia della morte, così come Sarah Polley ne La mia vita senza di me stilava un vero e proprio elenco di cose da fare prima di morire e riusciva a farle tutte tranne la più semplice, ovvero cambiare pettinatura. E dunque i quattro giorni del ritrovarsi, probabilmente desiderati e temutissimi da entrambi che non si vedono da tempo ma hanno il terrore di commuoversi, si nascondono dietro l’organizzazione del futuro di Truman, selezionando (im)possibili candidati all’adozione. Nel frattempo si gira per Madrid dove si incontrano amici, parenti e conoscenti, che si rivelano nel loro imprevedibile rapporto con la malattia, si recuperano ex mogli e figli lontani, e senza il tuo migliore amico al tuo fianco forse non sarebbe possibile.
Muovendosi abilmente tra umorismo e commozione, il regista si diverte a scompaginare i meccanismi facendo sì che i due amici si facciano una sorta di amorosa dichiarazione di amicizia nei primissimi minuti del film, in piedi per strada, e non nel finale, come invece si usava un tempo, possibilmente con la vittima intubata e rantolante in ospedale che stringe le mani dell’amico con l’ultimo afflato di vita rimanente. Ogni momento di commozione viene prontamente stemperato da una battuta, a ogni lampo improvviso di amarezza si contrappone un piccolo colpo di scena, una rivelazione, la scoperta che le cose non sono proprio come sembrano. Perché Truman in realtà è un film sull’amicizia e come diceva Sant Agostino “in questo mondo sono necessarie solo due cose: la salute e un amico; queste le cose di grande importanza, quelle che non dobbiamo trascurare” e se la salute ci abbandona, quanto ancora più importante diviene l’amico. In quanto maschile, di conseguenza meno abituata alla verbalizzazione, l’amicizia si esprime soprattutto attraverso umorismo, divagazioni, mezze frasi, sguardi e silenzi. Per nascondere la commozione, sapendo che ogni momento li avvicina alla fine, sfacciatamente Julian si serve di Tomas a tutti i livelli, compreso lo scroccargli continuamente soldi per i motivi più assurdi, instaurando un gioco di ruoli che nelle vere amicizie non può che essere solo apparente. Tomas, infatti, sta sempre al gioco, ne rispetta le regole, perché sa che è l’unico modo per loro due di stare insieme.
E, anche se al fotofinish, nello splendido duetto con Ricardo Darìn è la magistrale interpretazione di Javier Càmara a vincere: confinato in un ruolo apparentemente passivo e di “spalla”, riesce a esprimere senza patetismi ricattatori ma solo con un sopracciglio alzato, un silenzio, uno sguardo, tutta la dolcezza dell’amicizia e il dolore dell’addio.
Ottimo pezzo. Dissento solo per la scelta nella prova d’attore. Camara misurato e sottile .. e come sempre Ricardito @bombita darin SUPERlativo!!!