[*1/2]- Presentato in concorso al Festival di Roma, arriva nelle sale l’ultimo film del blasonato (agli oscar 2002) regista Danis Tanovic. E come il suo fortunato No Man’s Land, Tanovic torna in zone di guerra, ma con risultati poco soddisfacenti.
Kurdistan fine anni ’80. Mark (Collin Farrell) e David (Jamie Sives) sono dei fotoreporter con differenti indole e concezioni della propria professione: Mark vuole prolungare il suo soggiorno in campo di battaglia per non perdere occasioni propizie per scatti apprezzabili e inediti; David al contrario, saturo di violenza, sporcizia e precarietà, vuole tornare a casa dalla moglie prossima al parto. Mark scatta foto forti che “non appenderesti mai al muro della tua casa”, David invece, anche in contesti drammatici, riesce a ritagliare scatti di speranza.
Triage è quella pratica del dare ad ogni malato un cartellino colorato: ogni colore indica quanto si è vicini alla morte o lontani da essa. Ed è ciò che il dottor Tanzani amministra quotidianamente in un improvvisato ospedale elargendo vita e morte, prima simbolicamente con i cartellini colorati, poi materialmente, offrendo cure o sparando un colpo in testa ai moribondi senza speranza. Se la prima parte del film, l’arrivo in Kurdistan dei due reporter, lascia sperare sull’evolversi della pellicola, la seconda parte si immette in altre strade: la psicanalisi, il rimosso, la difficoltà dell’essere reduci; in un evolversi diseguale e strozzato rispetto all’intera struttura.
David lascia il campo e torna a casa, Mark ci arriverà più tardi con un ottimo servizio fotografico, ma scoprendo che l’amico non vi ha ancora fatto ritorno. Il disincantato fotografo peggiora di giorno in giorno, il suo deperimento fisico e prevalentemente di origine psicosomatica, allora la moglie (Paz Vega) si rivolge a suo nonno (Christopher Lee), già psichiatra dei criminali politici della guerra civile spagnola, per “redimere” e portare alla luce l’orribile verità che Mark ha rimosso. Le sedute psichiatriche alternano didascalici, poco evocativi e ancor meno suggestivi flash back del protagonista incentrati su atroci episodi di guerra della sua carriera. Qui “i ricordi filmati” non acquistano alcuna valenza espressiva, ma sono maldestramente necessari per un unico scopo: disseminarli per giustificare e preparare lo spettatore all’ultimo flash back rivelatore, ma decisamente scontato.
Quanta carne al fuoco: pretese di realismo, psicologismo di cui sopra, riflessioni sui media e sulla capacità di cogliere il reale, sull’obiettivo cine/fotografico come diaframma che distanzia e filtra l’uomo dall’atrocità e oscenità della guerra. Tante strade percorse a metà che passano tra paesaggi che vanno dal bellico al melodramma con incursioni nell’indagine psicologica e dell’inconscio. Tanovic vorrebbe restituirci la percezione dell’orrore, ma lo fa con inquadrature stanche, poco evocative e con un Collin Farrel espressivamente inadatto nel far trapelare turbamenti e angosce.