Dai soldati di Spike Lee alla polemica dei partigiani, dalla finzione alla ricerca di un cinema autentico – un’intervista a Rene Kyanga Mulungo (il primo a sinistra), rifugiato politico in Italia e collaboratore nel film di Spike Lee Il miracolo a Sant’Anna.
Che cosa ti ha spinto a partecipare al nuovo film di Spike Lee?
Volevo lavorare con Spike non solo perché è nero ma anche per sentire le sue esperienze. Quando si parla della Seconda guerra mondiale si parla della macchina che sta dietro ma non si parla delle persone che vi hanno partecipato. Volevo sapere come Lee invece andava a raccontare questo capitolo storico. Pensavo anche a mio nonno che una volta, durante le vacanze natalizie, mi presentò un militare che aveva partecipato alla Seconda guerra mondiale. Io ero bambino, non sapevo che cosa fosse. Loro hanno fatto la battaglia nell’esercito belga perché il Congo a quell’epoca era una colonia belga. Anche se i congolesi non hanno partecipato direttamente alla battaglia in Toscana di cui parla il film di Spike Lee mi chiedevo: perché non si parla di tutte quelle persone che sono rimaste lì? In Congo non lo hanno reso noto a nessuno! E mi dicevo: almeno questa storia la devo a mio nonno che poverino ha vissuto la guerra e che si chiedeva perché dovesse fare il servizio militare, perché dovesse lasciare la sua casa, e perché – cinquant’anni dopo – ancora nessuno ne parlasse!
Ci sono delle polemiche da parte dell’associazione dei partigiani che accusano Spike Lee di non raccontare i fatti storici nel modo giusto. Che cosa ne pensi?
Già durante le riprese, infatti, c’erano delle polemiche. Io invece sono d’accordo con Lee e penso: meglio così! Non è certo un film che ti dice com’è andata davvero, ma l’importante è che se ne parli. Forse per gli storici adesso è arrivata l’ora di riesaminare i fatti… Di parlare, per esempio, anche con i veterani neri.
Durante il mio lavoro al film come coordinatore di gruppo ho conosciuto alcuni anziani di Sant’Anna personalmente. Un giorno mi sono fermato in farmacia per comprare delle medicine per i ragazzi e uno di loro mi ha detto: “Ah, siete i soldati di Spike Lee! Guardate, noi sappiamo tutto di voi perché avevo 14 anni quando è successo questa cosa”. Non era un partigiano ma un testimone che aveva vissuto quegli eventi. Era contentissimo che finalmente ci fosse qualcuno che ne parlasse. Non parlare di tutte queste persone che sono morte, siano nere o bianche, è come fargli un’altra violenza.
La violenza dell’ignoranza…
Appunto! In realtà è anche più della violenza diretta perché significa fare finta che non esistano queste persone, anzi che non siano mai esistite. I critici parlano di fascisti, parlano di comunisti, ma non parlano di questi soldati neri che non sapevano perché dovevano andarci per combattere. Quando mio nonno è dovuto andare in Europa in Congo non c’era la guerra. Ha fatto la scuola militare, ha fatto il suo lavoro, ha fatto una guerra che il suo popolo neanche aveva cominciato. Neanche gli hanno fatto una tomba, neanche c’è un monumento. Tombe e monumenti dei partigiani, dei fascisti e dei comunisti invece si vedono da per tutto. Lasciamo allora almeno a Spike Lee il lavoro di parlare di questi morti!
Come hai trovato Spike Lee sul set?
Nel lavoro è bravo, sa quello che vuole fare, ha delle idee chiare e sa dove vuole arrivare. Mi dispiace che non abbia avuto l’opportunità d’esprimersi al meglio in Italia…
Ha reclutato un sacco di ragazzi non-professionisti per questo film. L’idea è stata bella, però sono critico perché secondo me avrebbe dovuto portarla ancora più avanti: questi ragazzi congolesi con cui ho lavorato avrebbero potuto dare qualcosa in più, avrebbero potuto essere dei protagonisti e non solo comparse.
In che senso il cinema di Spike Lee per te è o potrebbe essere un cinema politico?
Possiamo parlare del cinema come arte, ma parliamo dell’evoluzione del cinema. L’evoluzione del cinema per me significa che oggi ha la forza d’essere un vero mezzo di comunicazione. Mi ricordo sempre di Benigni che diceva “Il cinema lo portiamo a casa! Lo portiamo in tutte le case del mondo”. Questa visione oltre-la-scena per me significa cinema, comincia già prima della ripresa e finisce nella comunicazione della gente sul film. Anche la forza di non cambiare ma d’insistere sulla tua idea che hai del cinema, che vuoi proporre alla gente. Il cinema è un mezzo di comunicazione potente e secondo me più funzionante della politica. Con il cinema almeno due o tre persone brave riescono a comunicare con la gente. Spike Lee con i suoi film trasmette dei valori, per esempio la validità delle discussioni. Poi ovviamente non possiamo solo aspettare il cinema. Siamo anche noi portatori di valore, tutti quanti. L’immagine di per sè non ha un valore, ma quando riusciamo di trasformala in un valore è bello. Nel mio caso significa questo: spero che non mi chiameranno mai più per un film semplicemente come un’attore nero, ma semplicemente come un attore. Prendiamo l’esempio degli attori che vanno in Africa nel Darfur, come George Clooney: la sua azione è riconosciuta in quanto impegnato nei diritti umani, così la sua immagine acquisisce un valore, subisce una trasformazione politica. La mia visione di un cinema politico, quindì, è una visione di un cinema vivo.
Che vuol dire, un cinema vivo?
Un cinema vivo è un cinema che accetta la diversità nella diversità. Secondo me bisogna distinguere tra la selezione e l’esclusione: un bravo regista per me non esclude ma seleziona bene per far vedere l’intero piano. Sceglie dalla diversità.
Andiamo oltre l’eurocentrismo, cioè oltre il pensare l’Europa come la sola portatrice di cultura. Parliamo della colonizzazione, della dipendenza dell’Africa – tutto questo è stato portato dagli europei. Dove hanno portato la loro cultura? L’hanno portata in un posto dove già ce n’era un’altra di cultura. Una cultura che non possono chiamare inferiore perchè nessuna cultura ha più valore di un’altra. Quindi, accettiamo la diversità e il valore che ogni cultura ha. L’Europa tende a pensarsi come centro del mondo ma quando parliamo dell’Africa dicono che sia una cultura bagliata. Lo dice anche la Chiesa. E oggi, in Africa, una parte della gente si è dimenticata della propria cultura…
Com’è cambiata la tua vita quando sei arrivato in Italia e hai cominciato a lavorare nel settore cinematografico?
Facevo teatro a casa (in Congo) ma non potevo immaginare che un giorno avrei potuto lavorare qui in Italia. Fare cinema per me è una passione. In questo senso ringrazio davvero questo Paese. C’è dell’italianità dentro di me. Quando sono arrivato come rifugiato politico ho cominciato a lavorare come mediatore linguistico. Pensavo: come posso fare a ridare qualcosa a tutte queste persone che mi hanno aiutato, alle persone che mi hanno aiutato in Congo, in Uganda durante la mia fuga, in Italia? Mi è stato dato aiuto e voglio ridare qualcosa. Forse queste persone neanche si r
icordano di me, ma io voglio ridare qualcosa aiutando tutti questi che vengono dopo di me. E ora mi dicono: “Grazie, hai cambiato la mia vita” e questo mi riempie il cuore. Fare l’attore qui per me è un’opportunità in più anche per affrontare altre sfide politiche nel futuro. Spero che un giorno per me il cinema diventi un mezzo da utilizzare per comunicare, magari non solo come attore ma regista. Chissà…
Ti ricordi di un film recente che secondo te sia riuscito a catturare bene la realtà sociale degli immigrati?
Andiamo a Piazza Vittorio Emanuele qui a Roma. Questa è la realtà degli immigrati. Ma nei film, dove sono tutti questi immigrati? Non li si vede! Il cinema che si fa attualmente, secondo me, cerca di fuggire dalla realtà. Pochi registi vanno davvero sul posto per vedere. Se vuoi fare un film sui clandestini, vai a vedere, fai le interviste! C’è questa realtà che vuole essere ripresa! Non basta un attore bravo e una spiegazione possibile delle cause. Bisogna entrare in contatto con i testimoni. Le telecamere devono essere degli occhi universali. Non devono chiudere gli occhi di fronte alla realtà degli immigrati. Certo, il loro mondo va avanti, ma come mondo non visto, non valorizzato e non cambiato. Se invece facessero davvero vedere la loro realtà quei fatti tornerebbero nella società e si trasformerebbero in valori. Questo per me sarebbe un vero cinema politico… Un cinema davvero vivo.
Un’altro problema del cinema sui migranti secondo me è che si parla molto di società parallele. Prendiamo per esempio Sognando Beckham dell’indiana Gurinder Chadha (2002). È un film che tematizza l’integrazione di una ragazza indiana a Londra. Questa divisione mi dà fastidio. Perché non si parla invece della società multietnica e della sua forza? È una forza! Accettiamo questa forza della diversità ed applichiamola alla produzione cinematografica e alla politica! Se continuiamo invece a parlare di società parallele e a vivere in due mondi diversi, l’integrazione non arriverà mai. Do solo un esempio: ricordiamoci da dove viene Sarkozy. Vent’anni fa sarebbe stato un immigrato: è figlio di un ungherese e di una donna ebrea. Perché non vogliamo accettare che gli immigrati abbiano anche loro dei ruoli importanti oppure delle capacità meravigliose? È una materia di riflessione…
Mi dicevi che ci tenevi tanto a fare un regalo a Spike Lee. Cosa gli hai regalato dopo il film?
Gli abbiamo regalato un tamburo, il primo mezzo di comunicazione in Africa. Perché quando si comunicava da villaggio a villaggio si usava un tamburo. E c’erano delle persone che interpretavano i suoni. La mia contentezza nell’aver potuto partecipare a questo film l’ho espressa così. Il mio popolo e io non avremo mai un mezzo di comunicazione così potente come ce l’ha Spike Lee attraverso il cinema. Non avremo mai questi media però siamo anche noi portatori di valori. Ci sono delle persone che sono morte e che meritano giustizia. Sono venute qui da voi perché era la cosa giusta liberare l’Italia. Così questo tamburo rappresenta un ponte tra i vivi e i morti anche se in Africa non muore nessuno, perché i morti continuano a vivere nell’aldilà. Il tamburo è quindi un dono per tutti gli amici che sono rimasti lì in Toscana, a terra, nel freddo dell’Europa.
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Rene Kyanga Mulungo (al centro sulla foto) ha studiato scienze rurali in Congo. Ha dovuto lasciare il suo paese all’età di 21 anni perché svolgeva attività politica all’università finalizzata al miglioramento d’agricoltura e alle tecniche rurali. Nel 1996, dopo anni di fuga con soggiorni in Uganda e Kenya, è arrivato in Italia dove ha ricevuto lo status di rifugiato politico. Durante la guerra in Congo, René ha imparato l’italiano ed è diventato mediatore linguistico seguendo un corso presso il CIES (Centro Informazione e Educazione allo Sviluppo) e collaborando con la questura di Roma come interprete dei rifugiati politici. Parallelamente ha fatto l’attore in diverse produzioni italiane, tra cui la commedia Tutte le donne della mia vita di Simona Izzo (2006). La sua funzione nel film Il miracolo a Sant’Anna è stata di coordinamento delle comparse congolesi insieme all’organizzazione delle scene di massa.