Si usa dire che un regista invaghito dei propri personaggi e della storia che per mezzo di essi racconta non possa che dar vita a un cattivo film, sacrificando la lucidità del pensiero per il trasporto del filmare, che pecchi insomma di troppo amore. Questo è probabilmente il caso dell’attore-regista Mathieu Amalric e del suo Tournée, passato al TFF nella sezione “Festa mobile – Figure nel paesaggio”, dopo aver vinto a Cannes 2010 il premio per la regia. In effetti Tournée è un film esplosivo e sregolato, che sfugge ai canoni tradizionali – in una parola, eccessivo. E questa è indubbiamente la sua forza.

Questa caratteristica è legata in massima parte al suo soggetto e soprattutto all’ambiente umano in cui il film si muove, che è quello di una compagnia di burlesque in tour attraverso la Francia. Protagonista è l’impresario Joachim Zand (lo stesso Amalric), uno che una volta, intuiamo, deve essere stato tra le figure di spicco della televisione francese e che un carattere indocile ha spinto poi lontano da quel mondo. Joachim sta portando in tournée una compagnia di new burlesque californiana, difficile da gestire, formata com’è da donne vitali e incontenibili. Scopo non dichiarato del viaggio e perciò stesso assai rischioso è regolare alcuni conti col passato.

La mdp di Amalric mobilissima, spesso frenetica si concentra sui corpi tatuati ed eccessivi, esibiti come spettacolo in sé, delle sue ballerine; corpi addobbati di travestimenti, piume, ciglia finte, abiti coloratissimi che saturano letteralmente l’immagine. La messinscena lascia che la natura stessa del burlesque, genere caratterizzato, fin dalla fisicità delle sue interpreti, da una endemica vitalissima debordanza, informi di sé il film, ne sostanzi la cifra stilistica. Così, sullo schermo, grande spazio è riservato alle riprese dei numeri dello spettacolo, spesso molto lunghe (una si aggira attorno ai 15 minuti), che realizzano un film-nel-film di suoni, colori, musica di straordinaria coinvolgente vivacità.

Ma il grande fascino che, a parere di chi scrive, Tournée esercita sullo spettatore risiede innanzitutto nel suo proporsi radicalmente come tranche de vie, singolo e breve prelievo (48 ore circa) della vita dell’impresario Joachim e delle sue dive (tutte autentiche artiste del burlesque), sottratto per un’ora e mezza all’oblio e offerto alle luci della ribalta. Non è una narrazione in medias res quella approntata da Amalric e dai suoi tre cosceneggiatori perché questa implicherebbe un ritorno, quanto meno alluso, ai fatti che precedono il suo inizio (flashback esplicativi o giù di lì) e soprattutto presupporrebbe una chiusura del percorso narrativo, una finitezza che il film rifiuta invece in modo assoluto. Più radicalmente, infatti, Tournée taglia fuori dalla narrazione tutto ciò che la precede e (chissà?) la seguirà, schiudendo domande sulle vite passate e future dei personaggi che non possono trovare risposta se non nell’immaginazione dello spettatore. I due giorni che racconta sono un tutto, un presente che non conosce altro da sé. Per paradosso, potremmo quasi definire arbitraria la cesura che determina in Tournée l’esistenza di un film: “Perché ci viene presentato proprio quel segmento di vita e non un altro?” è lecito domandarsi. Joachim e compagnia sembrano davvero vivere autonomamente rispetto al film, sono cioè degli esseri umani, semplicemente, colti dal cinema in un momento delle proprie vite che potrebbe in fondo essere qualsiasi altro.

Qui il corpo attoriale e l’occhio registico di John Cassavetes emergono chiaramente dall’ombra, quale riferimento imprescindibile per un cinema del reale al quale Amalric certamente guarda con devozione. In particolare torna alla memoria quel capolavoro che è Assassinio di un allibratore cinese, similmente ambientato nell’ambiente dei locali di spogliarello (in quel caso della West Coast americana) e abitato da un protagonista (un grande Ben Gazzara) che di Joachim Zand è in qualche modo un padre putativo.

In una delle scene più significative e belle del film, il protagonista litiga a brutto muso con una delle sue dive, la biondissima Mimi Le Meaux, che gli rinfaccia di non essere stato sincero sulle reali motivazioni dell’impresa. Egli allora le chiede provocatoriamente e con un evidente accento di riprovazione, se si levi mai dalla faccia, almeno nell’intimità, il trucco pesante che porta in scena. Senza profferire parola, Mimi si toglie un po’ di rossetto dalle labbra e vi colora leggermente il volto dell’uomo, che, da esagitato che era, s’impietrisce d’un colpo e si lascia “truccare”. Ecco allora che tra il surplus di messinscena (eccessiva, “eccedente” il reale) e la vita per-come-è (offerta nella sua “verità”), poli significanti apparentemente inconciliabili di un film che abbiamo perciò detto irregolare, emerge la maschera, umanissimo ed eterno punto di congiunzione tra le esistenze di chi porta lo spettacolo della propria vita su un palco e di chi, per indole o sorte, la mette in scena dietro le quinte.

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