Finisce che a Cannes per i due film italiani in Concorso, rispettivamente Gomorra di Matteo Garrone e Il Divo di Paolo Sorrentino, qualcuno tiri fuori la vecchia questione dei “panni sporchi” da lavare in famiglia. Come sappiamo fu Giulio Andreotti a parlare in questi termini del neorealismo. Da una parte, evocare una critica del genere dovrebbe far piacere ai due autori. Essere accostati a Roberto Rossellini, Vittorio De Sica, Cesare Zavattini, Luigi Comencini è un complimento pur se considerati in negativo. Dall’altra, era e resta fuorviante. La preoccupazione di chi gira un film non può esser quella di dover dare una immagine positiva del proprio Paese. Ulteriore “tentazione” è quella di chiedersi, come fa con una qualche ritrosia e in modo poco chiaro Paolo D’Agostini su Repubblica, a cosa può servire oggi un film di denuncia. C’è addirittura il rischio, per quanto riguarda la camorra, di amplificare un immaginario del terrore “che inorgoglisce e fa sentire glorificati i boss”.
Non credo che queste siano delle buone ragioni per tirarsi indietro dal raccontare l’Italia contemporanea. Sappiamo che sulla fine del Sistema, così è chiamata la criminalità organizzata da Saviano, in quanto intrecciata a diversi livelli con aspetti legali del tessuto sociale, Garrone non ha grandi speranze. Al giornale spagnolo El Pais in una intervista ha detto: “Io non ho visto speranza, il Sistema è un ingranaggio infernale e condiziona la vita di molta gente”. Un pessimismo che emerge anche dalle storie tratte dal libro e messe sullo schermo. Cinque gli episodi narrati: la guerra di Secondigliano, il mercato della droga a Scampia, il tessile griffato in nero di Tersigno, il commercio dei rifiuti tossici nel casertano, e la vita di due ragazzini di Casal di Principe. Invece Sorrentino ripercorre le sorti di un mefistofelico Andreotti, a partire dagli anni ’90, prima che la Dc sia travolta dall’inchiesta di Tangentopoli, e sino ai due clamorosi processi di Perugia e Palermo, che portarono sul banco degli imputati il personaggio centrale della politica italiana del dopoguerra. Dal primo procedimento – i magistrati lo accusavano di essere il mandante dell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli – fu assolto “per non aver commesso il fatto”. Nel secondo le accuse di associazione mafiosa, tra l’altro il pentito Balduccio Di Maggio raccontava di aver visto il leader dc baciare Totò Riina, caddero in prescrizione.
Insomma si tratta di un cinema capace di uscire da situazioni anguste e ripetitive. Che getta uno sguardo su quanto l’informazione televisiva e della carta stampata non riesca a riproporre con la stessa forza epica dell’immagine cinematografica. Due film che raccontano l’Italia senza fare sconti e per farlo seriamente devono volergli bene, perché l’affetto non è sinonimo di indulgenza, al contrario può essere una leva straordinaria per mettere in evidenza le storture. Non c’è un metodo solo per combattere malaffare e camorra. Ad ognuno spetta una parte e la glorificazione dei boss sta più nel linguaggio adottato che nei contenuti esposti. Il cinema italiano credo abbia bisogno di ricostruire un paesaggio immaginario ancorato all’analisi della contraddittorietà del reale. Deve mappare le vicende e ricostruirle in forma di finzione con le diverse possibilità che il linguaggio cinematografico offre. Dovrebbe adottare, in questa ricerca amorosa della realtà, uno spirito di verità, quindi privo di formule preconfezionate e di schemi sociologici.
Pur se in un’altra sezione, la Quinzaine, sulla stessa linea sembra essere Francesco Munzi col suo Il resto della notte che si ispira, in termini di struttura e di approccio, al Truman Capote di A Sangue freddo, quindi un misto tra finzione e documentario. E’ il ritratto di “una borghesia che vive chiusa in una villa in cui si comunica poco sia con l’esterno che all’interno. Fuori c’è un mondo reale che pulsa, con il sottoproletariato estremo degli immigrati rumeni che nel film, e forse anche nella realtà, si dibattono tra l’essere un po’ servi o diventare briganti”, così Munzi a Cinecitttà News. Film italiani definiti “politici” dal quotidiano Le Monde e che potrebbero anche non essere capiti dal pubblico straniero. Problemi secondari rispetto all’urgenza di ricominciare a raccontare l’Italia.