Se da piazza Castello lo sguardo s’allunga su via Po’ va ad infilarsi, perdendosi, fin addosso alla collina. E nel suo corso si tinge dei colori freddi in cui si smarriva Mimì quando lo stacco deciso della Wertmüller lo incollava, magistralmente, al capoluogo piemontese. Mimì stava fermo sotto il semaforo immerso nella nebbia, tra auto e camioncini che lo nascondevano e lo lasciavano ricomparire. Era piccolo, quasi inesistente dentro la grandezza muta di quel pezzo di pianura di ferro, cemento e grigiore. Il semaforo sembrava sospeso ma i suoi colori diventavano incandescenti nel contrasto con il fumo naturale e chimico di quella Torino.
Oggi quei colori sono gli stessi, anche se la città, non solo quella del festival, è diventata una rete caldissima di pietra elegante, molto pedonale e vicina ai bisogni più alti degli uomini e del loro quotidiano. Lungo i portici pieni di librerie ambulanti non si contano le deliziose cioccolaterie, i perfetti caffè che riempiono di odori soavi la passeggiata dei residenti e dei turisti. Scorrono i tram mentre il sole non fa parte del contesto, mentre nessuno urla e i negozianti non ostentano mai maleducazione. Di sera, poi, è già illuminazione pre-natalizia. Già i disegni di mille lampadine riempiono di luce blu e rossa l’orizzonte. La nebbia, allora, e il grigio freddo del viavai, diventano l’atmosfera perfetta per andare piano dentro una città con un centro rielaborato a misura d’uomo. Torino accoglie e non aliena. Ospita, dà calore e invita alla cultura. Perciò piace a chi la scopre e perciò il suo festival d’autore è così amato. Perché Torino è il luogo ideale per abbandonarsi al cinema. Non c’è invasione mediatica. Torino è della cinefilia barbuta, quasi nascosta dentro capelli disordinati e lane spesse. Occhiali con robusta montatura e borse grezze compongono tanto look festivaliero. Poche hostess, poco glamour, poca musica. Tanto cinema, qualche fanatico. Film e chiacchiere, un pò di fila al bar, alcune in sala, soprattutto nel week-end.
Moretti si incrocia, passa, parla con molte persone, si ferma spesso a chiacchierare col ragazzo immigrato di seconda generazione che per Natale vuol tornare al suo paese. Moretti mostra sincero e distaccato interesse, poi corre agli incontri a cui tiene maggiormente. Si chiama L’amore degli esordi la sezione a cui dedica la sua persona e tanto del suo tempo. Parla con Rosi, coi Taviani che conosce benissimo, con De Bosio, con Vancini. Lascia per ultimo Brass, che considera un intellettuale. Fa in modo che per quell’incontro la stampa più grossa faccia in tempo ad accorrere e a filmare. Moretti mostra tutti i loro primi film e dà la possibilità ai giovani di capire meglio perché si parli così bene del cinema italiano degli anni ’60. Di fronte a La sfida (Francesco Rosi, 1958), si ha la netta sensazione di essere davanti a un film, oltre che bellissimo, di assoluta attualità. E con Un uomo da bruciare, con Il terrorista, con La lunga notte del ’43, con Chi lavora è perduto, si riassume con sicurezza un modo di fare e di concepire il cinema diverso da quello attuale.
Intanto, per i quattro cinema sparsi nel centro storico, sfilano film di diversa natura e diversa cultura. Piace Irina Palm, commedia inglese (in uscita questo venerdì distribuito dalla Teodora), che racconta di una malattia e di una donna, dell’amore per la vita e delle sorprese che questa nasconde.
Ci sono molti documentari, anche italiani, spesso sul Sud. Il più bello è quello di Alina Marazzi, la stessa dell’irripetibile e strappalacrime Un’ora sola ti vorrei. La regista racconta tre storie di donne utilizzando materiali d’archivio di indubbia qualità, accompagnandoli con le voci off di Teresa Saponangelo, Valentina Carnelutti e Anita Caprioli. Il suo Vogliamo anche le rose parla della complessità e della meraviglia della donna ma nel farlo racconta quarant’anni di storia italiana. Il film vola, intenerisce, coinvolge e avvicina a un mondo per gli uomini spesso impenetrabile. Alla fine lascia un sentimento tenero che contrasta col dolore scaturente dalla forza dei racconti.
Gli altri film italiani, nessuno in concorso, sono l’esordio di Fabrizio Bentivoglio, il documentario di Francesca Comencini e il film di Wilma Labate.
Bentivoglio calca gli anni Settanta della provincia campana. Riempie il film di musica e di personaggi buffuti e carichi di tic e simpatia. Ogni tanto si concede inquadrature e sequenze super autoriali, senza accorgersi che al suo film mancano una sceneggiatura solida e un efficace ritmo narrativo. Ne esce un film colorato ma poco frizzante e non molto comunicativo. Il riferimento trasversale e inconscio è L’uomo in più di Sorrentino, ma completamente privo di quella profonda malinconia che esaltava il miglior film del regista napoletano. Al documentario della Comencini va il premio per il miglior film sul mondo del lavoro, mentre Wilma Labate crea una cesura troppo netta tra il privato dei personaggi e lo storico, pubblico, di tutti gli altri, spettatori compresi. Il miglior film del Festival, stando alle decisioni della giuria, è Garage di Lenny Abrahamson. Il Premio speciale della Giuria va a The Elephant and the Sea di Woo Ming Jin. La Miglior Attrice è Joan Chen per The Home Song Stories. Il Miglior Attore Kim Kang-Woo, protagonista di The RailRoad.
Questi sono invece i premi della sezione Italiana.Doc. Miglior Documentario Italiano: La Naciòn Mapuce di Fausta Quattrini. Premio speciale della Giuria: L’esame di Xhodi di Gianluca e Massimiliano De Serio. Menzione speciale a Biùtiful Cauntri di Esmeralda Calabria, Giuseppe Ruggiero e Andrea D’Ambrosio. C’è pure una sezione dedicata ai corti italiani, dal nome semplice di Italiana Corti. Questi i permi: Miglior cortometraggio italiano a Giganti di Fabio Mollo; Premio Speciale della Giuria al Primogenito Complesso di Lavinia Chianello e Tomás Creus; la Menzione speciale va a Il Resto di una Storia di Antonio Prata.
Il Premio Cipputi per il miglior Film sul mondo del lavoro se lo aggiudica In Fabbrica di Francesca Comencini, come già accennato.