Quando il cinema si approccia a temi di stretta attualità si corre sempre il rischio che il frutto dell’indagine possa restare eccessivamente ancorato al contingente, lasciando poco spazio a ciò che di universale racchiude ogni collisione del presente. Non è questo il caso del bel Le Vendeur, opera prima del regista canadese Sébastien Pilote qui in concorso al Torino Film Festival 2011, pellicola che riesce a far traspirare, con levità, la crisi economica in atto attraverso l’alienazione di un irriducibile venditore di automobili.
Marcel Lévesque (un bravissimo Gilbert Sicotte) è un uomo prossimo all’età pensionabile completamente dedito al suo lavoro di rivenditore d’automobili, tanto da ricevere ogni mese, per molti anni consecutivi, la qualifica di ‘miglior venditore’. La sua professione è anche la sua vita, assieme all’amore per la figlia Maryse e suo nipote Antoine. La pellicola è scandita, nel corso di un rigido e nevoso inverno, dai giorni senza lavoro di alcuni operai in protesta di una cartiera della cittadina, licenziati in seguito alle conseguenze della crisi economica. Ad ogni riunione mensile i colleghi della concessionaria discutono sul destino dei lavoratori, ma Marcel non sembra esserne toccato: la sua totale dedizione al lavoro (da anni registra perfino la sua voce quando colloquia con un probabile nuovo acquirente, per capire sbagli e possibili migliorie nell’approccio) gli occlude qualsiasi riflessione tanto sul sistema globale che sulle micro vicissitudini locali che ha dinnanzi agli occhi.
Marcel è un piccolo ingranaggio di una precisa configurazione economica: affabile e amorevole, è amico di tutti pur restando un amico di nessuno. Ma la sua formale personalità, pur alienata, non è descritta da Sébastien Pilote attraverso artificiali eccessi di costruzione, Marcel resta credibile nelle sue sfumature e nella sua umanità, pur mantenendo una irriducibile strutturazione verso il lavoro. Sembra sinceramente onesto nei confronti dei suoi acquirenti pur utilizzando costantemente tutte le tecniche colloquiali funzionali per indurre all’acquisto.
Netto il taglio di ambientazioni tra il fuori e il dentro di Le Vendeur: un paesaggio costantemente ricoperto di neve, di un gelido bianco che ricopre ogni cosa, ogni singola vettura parcheggiata fuori dalla concessionaria, in contrasto con un tiepido, e mai rassicurante, interno che infonde una costante venatura malinconica e vagamente desolata, sempre in bilico e inafferrabile. Le Vendeur convince sia in questo solido e incessante equilibrio, lieve e non facilmente definibile, attraverso cui è tracciata la personalità del protagonista e sia nel consecutivo e allusivo rimando tra Marcel e un ben più ampio sistema. Due mondi, questi, che si incontreranno quando Marcel influenzerà un operaio licenziato della fabbrica nell’acquisto di una nuova auto, l’acquirente si ritroverà sprofondato nell’impossibilità di estinguere il finanziamento e tenterà il suicidio, salvato poi dallo stesso Marcel. Ma la vicenda non produrrà nel rigoroso e tenace venditore alcuna evidente presa di coscienza; né tantomeno l’evento ancor più drammatico, la perdita in un incidente di sua figlia e di suo nipote, riuscirà realmente ad intaccare la sua abnegazione nei confronti del lavoro, tanto da non concedersi neppure una pausa.
Per certi aspetti Marcel, nel suo orizzonte esistenziale, è associabile (ma di certo meno estraniato e non sovrapponibile) ad uno dei personaggi cari al regista Pablo Larrain: Tony Manero e Post Mortem contenevano tutti figure alienate frutto di un macrocontesto disgregato, anche se il background evidenziato dal regista cileno era specifico di una diversa configurazione politica e sociale.
Chiudono le fabbriche e persino i benzinai nella cittadina di Marcel, ma lui, nonostante tutto, cerca di vendere al meglio le automobili con la stessa dedizione. Passa l’inverno, se ne va anche il biancore della neve che copre ogni cosa, forse è tempo di riconciliazione tra il dentro e il fuori, ma intanto il cartello sul quale gli operai scandivano i giorni senza lavoro è lì a terra, ormai divenuto un trampolino per bimbi in bicicletta: a ognuno la valenza positiva o negativa della simbologia.