[****] – Studiare è un’opportunità, una palestra dove esercitare il vivere e la creatività. Il più delle volte è un’occasione persa ma non per Céline Sciamma che, fresca di laurea specialistica in letteratura francese e di corsi di sceneggiatura, al secondo lungometraggio della sua vita (per il primo – Naissance des pieuvres – aveva vinto il Prix Delluc come migliore opera prima), è già meritatamente volata sulle cime del Parnaso. Tomboy (già vincitore del Teddy Award all’ultimo festival di Berlino e dei premi del pubblico e della giuria al 26° Torino GLBT Film Festival) può infatti definirsi a tutti gli effetti un piccolo capolavoro, non solo artisticamente ma anche umanamente e politicamente. Se è vero infatti che viviamo in una realtà dominata (ma non vinta) dal qualunquismo, dall’omologazione del gusto, dall’utilizzo di un sentimentalismo da reality show o al massimo dal disimpegno tridimensionale o dal brivido thriller condito di sangue, pistole e bambole al botulino, Tomboy è decisamente in controtendenza sia nei contenuti che nella struttura, oltreché nella destrutturazione dell’industria cinematografica, a favore dell’intimità e dell’indipendenza del processo creativo.
Nella conferenza stampa seguita alla proiezione, la Sciamma ha infatti raccontato le difficoltà, ma anche il brivido di scrivere la sceneggiatura in tre settimane, girare dopo pochi mesi in soli venti giorni, con una troupe di quindici persone e un budget limitato e in buona parte finanziato privatamente. Questo ha comportato il fatto di dover scegliere gli attori a tempo di record nelle agenzie pubblicitarie, perdendo il gusto di studiare volti e occasioni casuali e più spontanei, ma vincendo la sfida con l’escamotage di chiamare sul set gli amici reali della piccola protagonista per creare un luogo “mistico” e insieme estremamente reale di gioco e lavoro, in cui i bambini, dimenticando la macchina da presa, ritrovassero la spontaneità propria della loro età. Un tempo limitato forse per una creatività dispersiva e “divistica”, ma reale per chi vive e crea nel solo tempo possibile: il presente, il “qui ed ora” carico di tutta la tensione pulsante di un’idea che prende forma.
Da queste premesse nasce Tomboy: in primo luogo un delicato film sull’infanzia. Protagonista è infatti una bambina alle soglie dell’adolescenza, alle prese con il difficile passaggio verso il mondo determinato dell’età adulta, dove si diventa qualcosa di certo: maschio o femmina, medico o avvocato, dove si supera la “linea d’ombra” del possibile, si toglie il velo per scoprire la presunta verità delle cose o semplicemente complicarne la semplicità. Laure, questo è il nome della bambina, ancora non ha deciso cosa essere e si presenta ai nuovi amici del quartiere dove ha appena traslocato con la famiglia, come Mickäel. Un maschio dunque. E del maschio vuole imparare i modi, i giochi, il vestire, persino la fisicità, fino a mettersi del pongo nelle mutandine. E’ un disagio che prelude all’omosessualità? Alla Sciamma, ma anche allo spettatore portato con mano lieve nella famiglia e nel quotidiano di Laure, non interessa. E’ un gioco, come la vita. E’ un teatro dove ogni scena ha delle conseguenze reali che Laure deve affrontare.
Fin dalle prime battute si viene proiettati nell’intimità di una famiglia come tante, dove i genitori cercano di crescere le figlie (Laure ha infatti una sorellina più piccola che avrà un ruolo importante nel dipingere la complicità e la forza dei legami di sangue) con amore e tenerezza. Ma dove la perfezione è solo un tentativo quotidiano di fare la cosa che sembra giusta e quando si scopre che non lo era, ci si guarda negli occhi per capire, per chiedere scusa o semplicemente per imparare ogni giorno chi sono le persone che amiamo. Mickäel fa innamorare una bambina della comitiva ed è bello seguire nei giochi la nascita di un amore che quando la verità viene fuori, sa ritrovare nel nome il filo di Arianna di una nuova possibile conoscenza.
Tomboy è anche un film sull’amore, sulla perfettibilità umana di questo sentimento e sulle potenzialità infinite dell’infanzia come tempo nudo e difficile, ma anche intatto dell’anima. La natura accompagna i giochi dei bambini in alcune riprese che si perdono fra i rami, nel cielo o in particolari sui quali si posa l’occhio della Sciamma, a disegnare il battito interiore di un pensiero, dei sentimenti. I silenzi e gli sguardi dicono e raccontano senza bisogno di didascalie e, alla fine del film, ci si sorprende, come all’uscita di un sogno, della possibilità ancora reale di poter godere di un capolavoro creativo che racconta, con delicata intimità e maestria cinematografica, il meraviglioso universo interiore dei bambini.