L’amore pretende l’espressione. Non starà fermo, zitto, non sarà buono, schivo, visibile, non rimarrà muto, no. E’ un cacciatore e del suo gioco noi siamo la preda. Maledetto sia il suo gioco.
Jeannette Winterson
E se l’amore vuole una voce, un grido, un esplicitarsi, ci sono parole impronunciabili che non hanno suono, parole che possono solo essere scritte ed è così che comincia Tom à la ferme, quarto film di Xavier Dolan, scrivendo.
Oggi muore una parte di me e io non riesco a piangere. Non conosco tutti I sinonimi della tristezza. Vuoto, solitudine, rabbia, rabbia e ancora rabbia!
Quando l’essere amato muore si allontana come un’astronave che non manda più segnali. Il contatto si rompe e Noi non ci siamo più.
La perdita non ha suono e si fa segreto, indicibile, rumore assordante esploso nel silenzio più totale, ferita-maschera sul volto, luogo della sensibilità, indecisione nel corpo unica incarnazione, che tradisce, espelle il dentro nel fuori.
Così come fa Tom, il protagonista (interpretato magnificamente da Dolan stesso), un lavoro da pubblicitario capelli tinti dei venticinque anni e di un certo modo di essere queer che inequivocabilmente si ascrive a un concetto che segna la frattura di comprensione tra diverse generazioni e ancor più quella deriva dei continenti che separa inesorabilmente la provincia rude e violenta, rispetto alla “civiltà” cittàdina.
Tom, sguardo vuoto di dolore per la perdita del suo amore Guillame e per “l’impossibilità di poter piangere”, si ritrova a ri-vestire forzatamente i panni del defunto per assecondare la madre di Guillame che non vuole sapere la vera identità del figlio, e si ostina a ricordarlo immortalato (già morto, perchè mai vissuto in fondo) in vecchie fotografie.
Ma Tom è anche orfano di quell’identità che una relazione regala, di quel Noi che non esiste più (da ricordare la scena in cui la madre riconosce su Tom lo stesso profumo del figlio e Tom stesso ormai in preda al delirio afferma di sentirsi finalmente in famiglia) e intraprende questo viaggio verso l’altro, verso il diverso rappresentato più largamente dalla provincia e dalla rozzezza di una certa cultrua tradizionale rurale, interpretata inquietantemente dal fratello macho di Guillame, disposto a tutto pur di mantenere il segreto, forse anche perché si scoprirebbe lui stesso omosessuale come trapela più volte nel gioco macabro e seduttivo che propone al compiacente Tom, esacerbato nella suggestiva scena in penombra di quel tango“pericoloso” dove desiderio e morte si abbracciano “virilmente” al di là del principio del piacere.
Un viaggio masochistico e dai ritmi incalzanti di un thriller psicologico, fatto di omissioni e architetture menzognere (i riferimenti a Hitchcok e Polansky sono manifesti) la cui struttura obbliga l’irrequieto libero battitore Dolan a toni più riflessivi e maturi questa volta.
Una narrazione spezzata, in sottrazione difficile da seguire perché parlante la lingua altra delle emozioni, del silenzio, della paura, della solitudine e dell’espiazione, accentuata dai colori lividi e martoriati dei corpi e dal paesaggio spettrale di quella Farm che è tutt’altro che beauty.
Bel commento.
Io ci ho visto molto, ma molto di meno. Vale a dire un film “situazionale”, senza una vera trama. Molto inconsistente e molto narcisista.
Vale a dire più una fantasia auto-erotica che un racconto. Il cambiamento delle situazioni e dei rapporti psicologici dei personaggi è insussistente e repentino. Troppo repentino. Sembra che cambino solo per assecondare i desideri del regista.
E il dramma non arriva mai all’acme. Tutti atti mancati, come la mancata orazione funebre di Tom al funerale del suo amatissimo e immediatamente dimenticato Guillome.
A mio modestissimo parere, tutto il film sta nella relazione sado-maso fra Tom e Francis, il fratello violento e drogato che diventa in qualche mondo suo fratello, almeno nella immaginazione del protagonista. Quindi anche un po’ incestuoso.
Poi Francis si scopa Sarah, forse ammazza la madre, forse aveva già ammazzato il fratello Guillome. Ma non ne fa neanche una di queste. e forse tenta di ammazzare pure Tom: e avrebbe dovuto farlo, per dare un senso ed un finale degno al film.
Invece finisce in maniera dolciastra, proprio come dopo un atto auto-erotico solitario. Cui il regista ci ha fatto assistere per due ore e passa.
Troppo poco per le aspettative che nutriamo sul regista. Troppo banale e troppo melensa la situazione.
Forse tirare fuori le unghiette non sarebbe stato poi così male…